Quasi due anni fa, si segnalava che per la prima volta la ricerca
accademica, a distanza di oltre 30/40 anni dai fatti, iniziava a
studiare il terrorismo considerando rilevante e utile al suo lavoro la
testimonianza delle sue vittime (vedi L’accademia italiana di fronte agli anni di piombo).
Sui tre casi a me direttamente conosciuti, due lavori sono già stati recentemente pubblicati: da una parte, “Figli delle vittime. Gli anni settanta, le storie di famiglia” a cura di Maurizia Morini edito in Italia da Aliberti; dall’altra, “Ending Terrorism in Italy” di Anna Cento Bull e Philip Cooke, edito nel Regno Unito da Routledge.
Il
primo unisce ricercatori italiani e francesi: Antonio Canovi, Charlotte
Moge, Ilaria Vezzani, Jean-Claude Zancarini, Maurizia Morini che
gravitano intorno alla École Normale Supérieure de Lyon.
Il risultato sono 5 brevi saggi sulle narrazioni delle vittime del
terrorismo ( di cui uno dedicato invece alle vittime della mafia), in
particolare di figli e figlie delle vittime, e il loro ruolo
testimoniale, insieme a quello della loro associazioni, nella difficile
ricostruzione degli anni settanta del XX secolo.
A parte il capitolo
sulle testimonianze dei figli di vittime per mafia, che pare fuori
luogo, gli altri saggi seppur coerenti sul piano tematico, presentano
una certa diversità di approccio, tanto interpretativo che metodologico.
Il
primo capito “Familismo morale e richiesta di storia”, sottolinea il
capovolgimento del concetto di “familismo amorale”, cioè la tipicità
italiana di anteporre l’interesse familistico a quello verso le
istituzioni e il bene pubblico, in quanto l’attività delle associazione
e i libri delle vittime si fondano “su
valori di vita civile condivisa, di aspirazione alla giustizia e alla
verità, punti fondamentali per l’esistenza di una società civile...”. E’ giustamente sottolineato che ”le
memorie dei familiari delle vittime e il lavoro delle associazioni
hanno fornito elementi che hanno consentito di non dimenticare e di
cominciare a elaborare una memoria collettiva… a far nascere un
desiderio di verità che si auspica diventi desiderio di storia comune
condivisa”.
Il secondo capitolo di Ilaria Vezzani,
presentando una cronologia dei fatti dal 1969 al 1982, fornisce una loro
interpretazione che contiene analisi abbastanza discutibili, a partire
da quella nota - in voga tra molti ex terroristi rossi e insegnanti
‘democratici’ - che la scelta terroristica dei militanti di sinistra
fosse collegata/giustificata dalla strategia delle tensione, delle bombe
nere e le paure di un golpe fascista. Mentre l’autrice, partendo da
Pasolini, si sofferma sui fatti violenti del dopoguerra e negli anni ’60
propedeutici ai progetti eversivi della destra neofascista, nulla
riporta dei fatti violenti e delle riflessioni ‘rivoluzionarie’ che
avvenivano a sinistra, ad esempio con la rivista Quaderni rossi e quelle
che seguirono fino al ’68, propedeutici alla nascita del brigatismo, le
cui motivazioni e giustificazioni sono espressi chiaramente, col rigore
del marxismo leninismo, nella sterminata pubblicistica delle Brigate
Rosse (e non vi è motivo di dubitare che dissimulassero delle paure da
‘buoni democratici’). Va inoltre rilevato come le testimonianze di alcuni
dei fondatori delle Br - in particolare quella di Alberto Franceschini
raccolta da Giovanni Fasanella ( ‘Cosa sono le Br’ - Rizzoli editore)
- contraddicano completamente la tesi di Vezzali.
Il terzo
capito di Maurizia Morini è una comparazione dei “lessici familari”
delle narrazione contenute nei recenti libri di: Giovanni Berardi,
Mario Calabresi, Andrea Casalegno, Silvia Giralucci, Agnese, Giovanni e
Maria Fida Moro, Eugenio Occorsio, Sabina Rossa (con Giovanni
Fasanella), Benedetta Tobagi e Alberto Torregiani. Il risultato delle
comparazione delle storie di questi figli delle vittime del terrorismo è
una analisi corretta, ma modesta che meritava probabilmente maggiore
approfondimento e spazio. E’ inoltre rimasta priva, in quanto usciti
successivamente,dei libri di Luca Tarantelli e, soprattutto, di Massimo
Coco che si presenta certamente come anomalo in quel panorama (vedi la
recensione “Gli anni di piombo e la forza del destino”)
Concludo
sull’ultimo capitolo, scritto da Antonio Canovi, nel quale, però, devo
precisare subito che sono ‘parte in causa’ in quanto una delle fonti
orali di quel saggio dedicato alle tre realtà associative delle vittime
in Italia: la Casa della Memoria di Brescia, l'Associazione tra i
familiari delle vittime della stage alla stazione di Bologna del 2
agosto 1980, e l’Associazione Italiana Vittime del Terrorismo (Aiviter).
Intervistato il giorno in cui scrivevo il post
sull’accademia e gli anni di piombo, ad ottobre del 2012 ricevetti
dall’autore la bozza definitiva del saggio. Pochi giorni dopo risposi
scrivendo una lunga lettera il cui incipit è il seguente: “….mi vedo
obbligato a svolgere una serie di osservazioni al saggio che mi avete
gentilmente anticipato. Osservazioni che sinceramente non mi sarei mai
aspettato di dover stendere e che mi indurranno a dover valutare se
accordarvi l'utilizzo delle parti a me relative.”
Non lo
accordai, così nel libro compaio come fonte orale, ma la mia oralità è
assente esplicitamente e resa talvolta implicita, talvolta curiosamente
imputata a fattore trasversale delle tre associazioni. Ma non desidero
addentrarmi troppo nel merito di quella polemica. Sottolineo solo che il
risultato è ambiguo quanto basta. Già l’originale del saggio in bozza, e
quindi l'intenzione dell'autore, era incentrata all'80%
sull'Associazione di Bologna, questo è ancora più evidente nella
versione finale pubblicata. Il tutto senza in vero nulla aggiungere
all'esautivo saggio, già edito 10 anni fa, di Anna Lisa Tota, La città ferita.
Il
saggio si conclude, in modo esemplificativo, presentando il testo
integrale del manifesto commemorativo della strage alla stazione di
Bologna, per il 2 agosto 2012. Questo l’incipit a caratteri maiuscoli: “La
strategia delle stragi dal dopoguerra ad oggi ha impedito all’Italia di
diventare una democrazia compiuta. E’ nel cuore torbido delle
istituzioni che vanno cercati i mandanti”. Conclusione davvero
curiosa di un raccolta di saggi indirizzati alle narrazioni dei figli
delle vittime degli anni ’70. Le testimonianze di quegli anni le hanno
fatte i figli delle vittime del terrorismo rosso (e in un solo caso
nero, non stragista, come Occorsio), come si evince dallo stesso
capitolo terzo del libro, ma a Bologna sembrano più interessati a tutto
il dopoguerra italiano, disegnato come un Stato inquinato da un cuore
torbido. Mancava solo che aggiungessero “da attaccare”, per avere lo
slogan brigatista che svela l’equivoco di fondo del saggio di Antonio
Canovi e l'interpretazione faziosa del secondo capito di Ilaria
Vezzani.
Di tutt’altro spessore il saggio di Anna Cento Bull. Prossimamente…
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