giovedì 21 novembre 2013

“Figli delle vittime. Gli anni settanta, le storie di famiglia”: appunti di una fonte

Quasi due anni fa, si segnalava che per la prima volta la ricerca accademica, a distanza di oltre 30/40 anni dai fatti, iniziava a studiare il terrorismo considerando rilevante e utile al suo lavoro la testimonianza delle sue vittime (vedi L’accademia italiana di fronte agli anni di piombo).

Sui tre casi a me direttamente conosciuti, due lavori sono già stati recentemente pubblicati: da una parte, “Figli delle vittime. Gli anni settanta, le storie di famiglia” a cura di Maurizia Morini edito in Italia da Aliberti; dall’altra, “Ending Terrorism in Italy” di Anna Cento Bull e Philip Cooke, edito nel Regno Unito da Routledge.

Il primo unisce ricercatori italiani e francesi: Antonio Canovi, Charlotte Moge, Ilaria Vezzani, Jean-Claude Zancarini, Maurizia Morini che gravitano intorno alla École Normale Supérieure de Lyon. Il risultato sono 5 brevi saggi sulle narrazioni delle vittime del terrorismo ( di cui uno dedicato invece alle vittime della mafia), in particolare di figli e figlie delle vittime, e il loro ruolo testimoniale, insieme a quello della loro associazioni, nella difficile ricostruzione degli anni settanta del XX secolo.
A parte il capitolo sulle testimonianze dei figli di vittime per mafia, che pare fuori luogo, gli altri saggi seppur coerenti sul piano tematico, presentano una certa diversità di approccio, tanto interpretativo che metodologico.

Il primo capito “Familismo morale e richiesta di storia”, sottolinea il capovolgimento del concetto di “familismo amorale”, cioè la tipicità italiana di anteporre l’interesse familistico a quello verso le istituzioni  e il bene pubblico, in quanto l’attività delle associazione e i libri delle vittime si fondano “su valori di vita civile condivisa, di aspirazione alla giustizia e alla verità, punti fondamentali per l’esistenza di una società civile...”. E’ giustamente sottolineato che ”le memorie dei familiari delle vittime e il lavoro delle associazioni hanno fornito elementi che hanno consentito di non dimenticare e di cominciare a elaborare una memoria collettiva… a far nascere un desiderio di verità che si auspica diventi desiderio di storia comune condivisa”.

Il secondo capitolo di Ilaria Vezzani, presentando una cronologia dei fatti dal 1969 al 1982, fornisce una loro interpretazione che contiene analisi abbastanza discutibili, a partire da quella nota - in voga tra molti ex terroristi rossi e insegnanti ‘democratici’ - che  la scelta terroristica dei militanti di sinistra fosse collegata/giustificata dalla strategia delle tensione, delle bombe nere e le paure di un golpe fascista. Mentre l’autrice, partendo da Pasolini, si sofferma sui fatti violenti del dopoguerra e negli anni ’60 propedeutici ai progetti eversivi  della destra neofascista, nulla riporta dei fatti violenti e delle riflessioni ‘rivoluzionarie’  che avvenivano a sinistra, ad esempio con la rivista Quaderni rossi e quelle che seguirono fino al ’68, propedeutici alla nascita del brigatismo, le cui motivazioni e giustificazioni sono espressi chiaramente, col rigore del marxismo leninismo,  nella sterminata pubblicistica delle Brigate Rosse (e non vi è motivo di dubitare che dissimulassero delle paure da  ‘buoni democratici’). Va inoltre rilevato come le testimonianze di alcuni dei fondatori delle Br - in particolare quella di Alberto Franceschini raccolta da Giovanni Fasanella ( ‘Cosa sono le Br’ - Rizzoli editore) - contraddicano completamente la tesi di Vezzali.

Il terzo capito di Maurizia Morini è una comparazione dei “lessici familari” delle narrazione contenute nei recenti  libri di: Giovanni Berardi, Mario Calabresi, Andrea Casalegno,  Silvia Giralucci, Agnese, Giovanni e Maria Fida Moro, Eugenio Occorsio, Sabina Rossa (con Giovanni Fasanella), Benedetta Tobagi e Alberto Torregiani. Il risultato delle comparazione delle storie di questi figli delle vittime del terrorismo è una analisi corretta, ma modesta che meritava probabilmente maggiore approfondimento e spazio. E’ inoltre rimasta priva, in quanto usciti successivamente,dei libri di Luca Tarantelli e, soprattutto, di Massimo Coco che si presenta certamente come anomalo in quel panorama (vedi la recensione “Gli anni di piombo e la forza del destino”)

Concludo sull’ultimo capitolo, scritto da Antonio Canovi, nel quale, però, devo precisare subito che sono ‘parte in causa’ in quanto una delle fonti orali di quel saggio dedicato alle tre realtà associative delle vittime in Italia: la Casa della Memoria di Brescia, l'Associazione tra i familiari delle vittime della stage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, e l’Associazione Italiana Vittime del Terrorismo (Aiviter).
Intervistato il giorno in cui scrivevo il post sull’accademia e gli anni di piombo, ad ottobre del 2012 ricevetti dall’autore la bozza definitiva del saggio. Pochi giorni dopo risposi scrivendo una lunga lettera il cui incipit è il seguente: “….mi vedo obbligato a svolgere una serie di osservazioni al saggio che mi avete gentilmente anticipato. Osservazioni che sinceramente non mi sarei mai aspettato di dover stendere e che mi indurranno a dover valutare se accordarvi l'utilizzo delle parti a me relative.
Non lo accordai, così nel libro compaio come fonte orale, ma la mia oralità è assente esplicitamente e resa talvolta implicita, talvolta curiosamente imputata a fattore trasversale delle tre associazioni. Ma non desidero addentrarmi troppo nel merito di quella polemica. Sottolineo solo che il risultato è ambiguo quanto basta. Già l’originale del saggio in bozza, e quindi l'intenzione dell'autore, era incentrata all'80% sull'Associazione di Bologna, questo è ancora più evidente nella versione finale pubblicata. Il tutto senza in vero nulla aggiungere all'esautivo saggio, già edito 10 anni fa, di Anna Lisa Tota, La città ferita.
Il saggio si conclude, in modo esemplificativo, presentando il testo integrale del manifesto commemorativo della strage alla stazione di Bologna,  per il 2 agosto 2012. Questo l’incipit a caratteri maiuscoli: “La strategia delle stragi dal dopoguerra ad oggi ha impedito all’Italia di diventare una democrazia compiuta. E’ nel cuore torbido delle istituzioni che vanno cercati i mandanti”. Conclusione davvero curiosa di un raccolta di saggi indirizzati alle narrazioni dei figli delle vittime degli anni ’70. Le testimonianze di quegli anni le hanno fatte i figli delle vittime del terrorismo rosso (e in un solo caso nero, non stragista, come Occorsio), come si evince dallo stesso capitolo terzo del libro, ma a Bologna sembrano più interessati a tutto il dopoguerra italiano, disegnato come un Stato inquinato da un cuore torbido. Mancava solo che aggiungessero “da attaccare”, per avere lo slogan brigatista che svela l’equivoco di fondo del saggio di Antonio Canovi e l'interpretazione  faziosa del secondo capito di Ilaria Vezzani.

Di tutt’altro spessore il saggio di Anna Cento Bull. Prossimamente