lunedì 18 aprile 2016

Radicalizzazione jihadista: quello che manca in Italia

Nella Relazione sulla politica dell'informazione per la sicurezza del 2015 predisposta della nostra intelligence, leggiamo "Anche in Italia, il fenomeno dei foreign fighters, inizialmente con numeri più contenuti rispetto alla media europea, è risultato in costante crescita, evidenziando, quale aspetto di particolare criticità, l’auto-reclutamento di elementi giovanissimi, al termine di processi di radicalizzazione spesso consumati in tempi molto rapidi e ad insaputa della stessa cerchia familiare."
Chiediamoci se è veramente così. I processi di radicalizzazione individuali sono invisibili alla famiglia?
Già nella medesima Relazione del 2008 si era evidenziato il fatto che nelle carceri "è stata rilevata un'insidiosa opera di indottrinamento e reclutamento svolta da 'veterani', condannati per appartenenza a reti terroristiche, nei confronti di connazionali detenuti per spaccio di droga o reati minori." Recentemente, poi, Gennaro Migliore, sottosegretario alla giustizia con delega per detenuti e trattamento, ha sottolineato: “In Italia abbiamo un problema di recidiva e un problema incipiente di radicalizzazione all’interno delle carceri: sapete tutti che Salah Abdeslam, il terrorista che è stato arrestato, responsabile della strage al Bataclan, era stato reclutato in carcere e che oggi il reclutamento e la radicalizzazione in carcere sono fenomeni da tenere sotto stretto controllo.
Allora può seguire una seconda domanda: i processi di radicalizzazione individuali sono invisibili nelle carceri?
La risposta è che il processo di radicalizzazione violenta non è invisibile ai soggetti che ruotano intorni alle figure coinvolte: la famiglia, ma anche docenti, personale penitenziario, polizia di prossimità, se adeguatamente preparati potrebbero valutare i rischi e prevenirlo ad uno stadio anteriore di quando il soggetto si trova a pianificare e cercare di attuare attentati. Ma essere in grado di valutare i rischi, e gestirli (Risk Management), richiede che il problema della radicalizzazione esca dall’alveo securitario e di intelligence in cui giace ancora oggi nel nostro paese.
Da anni, in molti paese, politiche e programmi nazionili di prevenzione della radicalizzazione dell’estremismo violenti sono stati attivati. I principali fattori di rischio per l'estremismo violento sono stati organizzati in un protocollo di valutazione strutturata del rischio (Violent Extremism Risk Assessment; VERA), cui seguono programmi di de-radicalizzazione.
Utilizzando quel protocollo, il governo francese, per esempio, l'anno scorso dopo i fatti di Charlie Hebdo a Parigi, ha lanciato una campagna di comunicazione e un numero verde di assistenza per le famiglie che temevano per la radicalizzazione "jihadista" dei loro figli.

Anche l’Italia ha provato a seguire le orme dei cugini francesi, ma si è dovuta fermare di fronte al problema di aprirsi al mondo esterno agli apparati di sicurezza.
Chi dovrebbe infatti rispondere ad un numero verde di assistenza alle famiglie?
Nessuna madre, per quanto preoccupata di un figlio che cambia repentino abitudini e temendone la partenza verso scenari di guerra, giungerebbe a denunciarlo agli organi di polizia. Solo del personale professionalmente preparato ed indipendente potrebbe aiutare le famiglie in modo efficace, sapendo come intervenire e potendo godere della fiducia necessaria.
Il medesimo problema si pone nelle carceri. Chi e come interviene una volta che siano monitorati i rischi di radicalizzazione violenta dei carcerati?
La collaborazione tra amministrazioni pubbliche e società civile è infatti il fondamento per intervenire nel processo di radicalizzazione prima che crei dei terroristi. Ma finché non si apre un vero dibattito interno al paese sulle sfide poste dalla potenziale radicalizzazione dei nostro giovani resteremo ad una visione carente dei fenomeni che abbiamo di fronte, altamente rischiosa in quanto sta producendo politiche incerte se non controproducenti che potrebbero, a loro volta, contribuire ad un peggioramento dei rischi complessivi.

mercoledì 13 aprile 2016

SEMINARIO “MIGRAZIONI OGGI: SOGGETTI E SCENARI”

Nell'ambito della mostra Binario 18#stayhumanart

 SEMINARIO “MIGRAZIONI OGGI: SOGGETTI E SCENARI”
 Ingresso gratuito - aperto al pubblico tramite iscrizione casella mail legalarte@virgilio.it fino a esaurimento posti
Riconosciuto come aggiornamento professionale per Polizia di Stato e Ordine giornalisti

14 APRILE 2016 ORE 9/13

Palazzo Falletti di Barolo
Via delle Orfane 7, 10122 Torino

PROGRAMMA
Saluti istituzionali: Fosca NOMIS – Presidente commissione Legalità Città di Torino

SOGGETTI E SCENARI

Germana TAPPERO MERLO, Analista di Politica e Sicurezza internazionale
Guerre e iniquità: le cause dei flussi migratori

Michele SOLE, Dirigente Ufficio Immigrazione Torino
Panoramica sui flussi migratori: dati e normativa di riferimento

Farhad BITANI, ex capitano dell’esercito afgano autore del libro
“L’ultimo lenzuolo bianco”: storia di una rivoluzione personale

RISCHI E PREVENZIONE

Germana TAPPERO MERLO: Analista di Politica e Sicurezza internazionale
ISIS e Jihadismo

Luca GUGLIELMINETTI, Rete della Commissione Europea sulla Radicalizzazione:
La prevenzione della radicalizzazione violenta

 
 

lunedì 11 aprile 2016

È il bisogno di “appartenere” a spingere i giovani verso la jihad


Non il disagio sociale: molti terroristi erano ben integrati

da La Spampa del 11/04/2016

di Lorenzo Vidino


washington

Dopo gli attentati di Bruxelles, esattamente come quelli di Parigi, l’attenzione pubblica si è focalizzata sui quartieri a forte presenza musulmana delle città del Centro-Nord Europa, dalle banlieue parigine alla più centrale, ma altrettanto problematica Molenbeek. È stato detto che mancanza di integrazione, disoccupazione, criminalità e marginalizzazione sono le cause della radicalizzazione degli attentatori e di ampie sacche delle locali popolazioni musulmane. In realtà, per quanto questi fattori sociologici non vadano ignorati, un’analisi approfondita del background dei jihadisti europei e svariati studi sulla radicalizzazione effettuati negli ultimi anni portano a conclusioni diverse.

Il vice-primo ministro del Belgio Jan Jambon lo ha accennato in una recente intervista, affermando che solo un sesto dei jihadisti belgi proviene da famiglie che si trovano sotto la soglia di povertà. Non sorprende pertanto che il regista degli attentati di Parigi, Abdelhamid Abaaoud, avesse frequentato un prestigioso liceo privato di Bruxelles e avesse un padre che possedeva una piccola catena di negozi di abbigliamento. E se alcuni dei membri del network di Molenbeek avevano precedenti penali (cosa di per sé non sintomatica di mancata integrazione), altri avevano frequentato l’università e avevano buone carriere.

La situazione è simile in Francia. Dounia Bouzar, direttrice del Centro per la Prevenzione del Settarismo Islamico, ha recentemente pubblicato i risultati di un suo studio su 160 famiglie francesi che l’avevano contattata chiedendole aiuto per combattere la radicalizzazione dei loro figli. Il dato più eclatante: due terzi delle famiglie facevano parte della classe media. Inoltre, secondo un altro studio, il 23% dei jihadisti francesi in Siria sono convertiti, molti dei quali provenienti da buone famiglie del ceto medio e, in alcuni casi, dalle élites francesi. Un recente studio condotto dall’università Queen Mary di Londra su un amplio campione di giovani musulmani britannici ha dimostrato che i soggetti più a rischio di radicalizzazione sono giovani dai diciotto ai vent’anni ben istruiti e provenienti da famiglie benestanti che parlano inglese a casa: paradossalmente, quindi, più sono integrati più sono propensi alla radicalizzazione.

È quindi palese che fattori socio-economici, per quanto a volte rilevanti, non siano la chiave di volta per capire i processi di radicalizzazione. D’altronde, se fossero solo la povertà e la mancanza di integrazione a causare radicalismo, come mai solo una piccola, statisticamente insignificante parte della popolazione musulmana europea che vive in una situazione di disagio si radicalizza? Non ogni giovane musulmano di Molenbeek si è unito all’Isis. E come si spiega anche che molti casi di radicalizzazione esistono anche in paesi considerati (giustamente) modelli di integrazione quali Canada e Stati Uniti? Come si spiega, per esempio, la radicalizzazione dell’attentatore di San Bernardino, Syed Rizwan Farook, nato e cresciuto in ambiente middle class californiano, con una laurea e un buon lavoro? In realtà più della sociologia è forse la psicologia che ci aiuta a capire chi e perché diventa estremista. Il punto che sembra unire tutti questi soggetti è che tutti paiono alla ricerca qualcosa: un ideale, un senso di appartenenza, un’avventura. Come dice Ed Husein, un ex militante islamista nato e cresciuto a Londra, i jihadisti europei spesso «sono disillusi, non emarginati. Molti sono ben istruiti e con una buona famiglia. Ma cercano tutti dei valori o una ragione per la quale combattere, una causa per la quale poter morire». La mancata integrazione e la vita in un quartiere malfamato posso aiutare a creare questa disillusione, ma da soli non offrono una spiegazione concreta per illustrare un fenomeno così complesso come la radicalizzazione. 

domenica 10 aprile 2016

Terrorismo e migrazioni oggi, rischi e prevenzione

  • Dal catalogo “binario 18: #stayhumanart” promosso da Legal@rte
RISCHI E PREVEZIONE
Le ricadute sull’Europa dello scenario di guerre e flussi migratori è sotto gli occhi di tutti e prendono le forme e i nomi di una serie di rischi diversi: la stessa tenuta dell’Unione europea, quella dei suoi trattati (Schengen) e dei suoi valori comuni; la coesione sociale dei singoli Stati membri, minacciata da xenofobia, nazionalismi e populismi che raggiungono sempre più alti livelli politici; e la minaccia terroristica con annesse le varie forme di radicalizzazione violenta che coinvolgono le comunità musulmane.
Mi soffermo qui solo su l’ultimo di questi rischi, la cui prevenzione però ha ricadute positive su gli altri due.
Nella lotta al terrorismo, il significato di prevenzione è stato quasi  sempre associato alla repressione dell’atto eversivo in una delle fasi che precedono la sua attuazione concreta di attentato: dunque una prassi esclusiva degli organi di polizia ed intelligence.
Dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, sono iniziate a comparire ricerche, analisi e poi progetti e pratiche finalizzate ad intervenire sulle radici del fenomeno terroristico, cioè nelle fasi di quello che viene definito il processo di radicalizzazione violenta, precedenti a quelle finali in cui i soggetti disumanizzano le vittime del proprio odio e la violenza diventa pratica tanto cieca quanto concreta.
Non si nasce terroristi, né si tratta di pazzi e di emarginati sociali allo sbando. Dall’analisi delle loro bibliografie sono invece stati tratti dei modelli che ci descrivono la pluralità di concause e gli stadi successivi per cui un soggetto si radicalizza fino a giungere ad unirsi ad un gruppo terrorista. Da questi modelli sono stati tratti approcci e pratiche  atti alla  prevenzione di tale processo nei gruppi a rischi e di de-radicalizzazione sui singoli soggetti.
I programmi che si occupano di questa forma di prevenzione sono noti a livello internazionale come politiche di CVE: contrasto all’estremismo violento, il presupposto di partenza è che “l'intelligence, la forza militare e l'applicazione della legge da sole non risolvono - e quando abusato possono invece esacerbare - il problema dell'estremismo violento"(1).
I tre pilastri delle sue azioni sono:
- Disseminare sensibilizzazione sui processi di radicalizzazione violenza e di reclutamento;
- Contrastare le narrazioni estremiste, come la propaganda jihadista, con la promozione on-line di contro-narrazioni promosse dalla società civile;
- Valorizzare gli sforzi delle comunità locali che intervengono consentendo di interrompere il processo di radicalizzazione prima che un individuo si impegni in attività criminali.
Nei paesi del nord d’Europa tali politiche di prevenzione vedono le istituzioni pubbliche coinvolgere la società civile, le ONG, gli opinion maker politici e religiosi, con partnership pubblico /privato, per attuare, ormai da un decennio, interventi nelle comunità a rischio, nelle prigioni, nelle famiglie, nelle scuole con strumenti educativi, psicologi, sociali e mediatici.
Dal 2011 la Commissione Europea, Direzione Generale Affari Interni, ha lanciato la RAN, Radicalisation Awareness Network (2), creando una rete di operatori che a vario titolo lavorano sul campo, per raccogliere le migliori pratiche e trasformare i migliori approcci di contrasto alla radicalizzazione violenta in politiche per gli Stati membri. I paesi latini del Sud Europa sono però in grave ritardo su questo terreno. La Francia solo dopo i fatti di Charlie Hebdo del gennaio 2015, ha iniziato ad investire massicciamente nelle politiche e nei programmi di CVE. Mentre l’Italia stenta ancora, con l’eccezione di qualche progetto pilota.
Eppure, queste politiche che intervengono sul pensiero critico dei giovani di fronte alla propaganda su Internet, sulla resilienza delle comunità multi-religiose e multi-etniche delle nostre città, nell’informazione alle famiglie che temono per i propri figli in fuga verso scenari di guerra, o nelle prigioni per evitare che siano fucine di terroristi, oltre a prevenire la radicalizzazione, producono benefici indiretti per gli altri due rischi esposto all’inizio: rafforzano la coesione sociale dei nostri paesi e diffondono i valori comuni europei di cittadinanza attiva, democratica, plurale e non-violenta.


giovedì 7 aprile 2016

UN, 70 raccomandazioni di contrasto all'estremismo violento

Il 15 Gennaio 2016 il Segretario generale dell'ONU ha presentato il suo piano d'azione per prevenire l'estremismo violento all'Assemblea Generale. Il Piano è un appello per un'azione concertata da parte della comunità internazionale. Esso fornisce più di 70 raccomandazioni agli Stati membri e al sistema delle Nazioni Unite per prevenire l'ulteriore diffusione dell'estremismo violento.