mercoledì 19 luglio 2017

Psicologia del terrorismo: la rassegna critica di John Horgan





La rassegna critica sugli studi di psicologia del terrorismo condotta da John Horgan, tradotta in italiano da Edra nella revisione del 2014, evidenzia un quadro che lo stesso Autore definisce 'sconfortante', anche se meno di quanto paventato nella sua prima edizione del 2005: "le attuali analisi sul terrorismo rimangono a breve termine, contingenti, spesso carenti di dettagli, politicizzate e molto specifiche".

Se in una analoga revisione negli anni '80 del XX secolo, la ricerca accademica sul terrorismo veniva descritta "come una realtà di piccola scala, addirittura periferica, nella maggior parte delle università" (Wilkinson, 1986), la mole di studi e ricerche, successivi all'11 settembre 2011, non ha migliorato la situazione dal punto di vista qualitativo. Errori di metodo, di raccolta, verifica ed interpretazione dei dati, mancata ricerca sul campo, hanno reso i risultati scarsi e poco utilizzabili per gli attori dell'antiterrorismo: decisori politici e forze di sicurezza e intelligence.
"La tendenza degli studiosi di concentrarsi esclusivamente sulla propria disciplina" e quindi la difficoltà di integrare diverse conoscenze per un approccio multidisciplinare di un fenomeno complesso, è stato un ulteriore fattore dell'insuccesso dei risultati ottenuti, secondo Horgan, che però giustamente sottolinea, nel primo capitolo, quello che è uno dei punti più critici: l'ambiguità dello stesso termine terrorismo, con le difficoltà a trovare una comune definizione che lo circoscriva chiaramente.

Una delle 'deviazioni' che l'Autore giudica più dannose è stata quella della ricerca che si è indirizzata sulla radicalizzazione con l'intento di definire profili e modelli predittivi che spiegassero "chi è il terrorista". Horgan propone invece un approccio indirizzato al comportamento terroristico che analizzi le tre fasi del modello IED (Involvement, Engagement e Disengangement) tenendo conto dei vari ruoli in seno alle organizzazioni eversive (compresi quelli che non necessariamente prevedono la pratica delle violenza) e focalizzandosi su comportamenti, dinamiche e relazioni di gruppo.
"Sono le analisi comportamentali a offrire spunti più proficui alla ricerca", sostiene l'Autore che però resta comunque giustamente scettico sul fatto che si possano individuare 'fattori di rischio' non generici e quindi dotati di valore predittivo.

Horgan presenta molti spunti di ricerca, compresi alcuni che parrebbero suonare paradossali come la domanda "perché così tanti non si dedicano al terrorismo?", ma anche sfide al mondo della politica, il cui processo decisionale "è quasi sempre completamente inefficace nella gestione del terrorismo".
"Siamo ben consapevoli di come certe risposte ai movimenti terroristici, in realtà, aumentino il supporto al terrorismo contro lo Stato, ma i governi ritengono che l'unico trattamento da riservare ai terroristi sia quello meritato dai codardi, altrimenti temerebbero di apparire disumani e insensati."
E prosegue con con raro e lucido pragmatismo: "noi sappiamo già come, sotto molti aspetti, probabilmente non dovremmo rispondere al terrorismo". La questione di "come combattere i terroristi" in ultima analisi è una questione di priorità da assegnare ai propri obiettivi: "Che cosa volgiamo fare? Se l'eliminazione dei terroristi è un obiettivo fondamentale per un governo, allora le implicazioni diventano ovvie, come stiamo osservando su larga scala con il programma droni".

Un testo quindi molto interessante, sul quale viene l'impulso di portare la critica anche oltre i confini esplorati dal professore americano.
In questa sede mi concentro su una sola osservazione che, proprio dal punto di vista empirico, mi pare costituisca un limite di conoscenza delle politiche, comprese quelle ufficialmente promosse dagli USA, almeno ai tempi di Obama.
Nell'ultimo capitolo l'Autore solleva una critica, che sappiamo connessa alla ricerca sulla radicalizzazione violenta, alle politiche di "contrasto all'estremismo violento" (CVE): "non è chiaro il modo esatto in cui tale obiettivo possa essere raggiungo o che cosa venga di fatto prevenuto".
Nel momento in cui scriveva (2013) l'Autore forse non aveva ancora conoscenza della quantità di programmi e progetti attuati in molti paesi di prevenzione/contrasto degli estremismi violenti.
Pur riconoscendo che è assai difficile misurarne l'efficacia, queste politiche segnano comunque, se non una inversione, una cambiamento di paradigma nella lotta al terrorismo.
Se infatti gli studi sulla radicalizzazione hanno prodotto, da una parte, una serie di strumenti discutibili per monitorare e valutare il grado di involvement dei soggetti a rischio (ad esempio nelle prigioni); dall'altra, hanno prodotto la consapevolezza che la risposta securitaria da sola sia insufficiente ad affrontare il fenomeno, ammettendo che un eccesso, per non dire abuso, di uso della forza sia controproducente: fatto sul quelle Horgan sicuramente converebbe.
In altri termini, se un esito degli studi sulla radicalizzazione sono stati strumenti di Risk Assessment indirizzati esclusivamente ai soggetti a rischio di terrorismo di matrice jihadista, sulla cui efficacia  è lecito dubitare; le politiche di CVE si sono rivolte, nel maggior parte dei casi e dei paesi, a tutti gli estremismi violenti, cioè di ogni matrice, con un approccio multi-agenzia che investe anche soggetti pubblici e privati esterni al mondo della sicurezza, per intervenire a livello locale prima che i reati vengano commessi. Politiche e programmi, che almeno nei migliori dei casi, hanno un portato politico che spesso sfugge, ma che Horgan credo potrebbe apprezzare, rappresentato dal fatto che si affrontino i conflitti politici apertamente, prima che intervengano cattivi maestri, reclutatori e quanti altri alimentano la deriva violenta di una causa.

mercoledì 12 luglio 2017

Lotta al terrorismo e prevenzione della radicalizzazione: vantaggi e debolezze italiane

Che cosa sta facendo il nostro Paese in tema di prevenzione del terrorismo e della radicalizzazione violenta.
Intervista all'emittente 7Gold - Emilia Romagna del 4 luglio 2017.

martedì 11 luglio 2017

Charlie e gli 11.0000. Ovvero Storytelling Vs Ricerca


Una singola storia, ad esempio quella del piccolo Charlie che sta attirando l'attenzione e schierando fiananco i leader mondiali, appassiona assai più dei numeri; ad esempio 11.000, il numero dei bambini siriani uccisi dal regime di Assad solo dall'inizio del conflitto alla fine del 2013 (Oxford Reseach Group). 
Una storia di cui sappiamo i nomi, i ruoli dei personaggi con i loro desideri e sofferenze, è una notizia sulla quale discutere e accalorarsi. I numeri freddi di una strage che introduce una nuova fattispecie di terrorismo di Stato in quanto mira a piegare la popolazione colpendo intenzionalmente i bambini, è un fatto che non accalora nessuno, salvo i diretti interessati. 
Scrivo questo non per sterile moralismo, ma per far notare come, di fronte ai fatti che ci presenta il mondo, siamo assai più attratti e coinvolti dello storytelling propinato dai media che dai dati empirici, propinati dalla ricerca. 
Questa dinamica, ben nota alle scienze cognitive, per cui siamo "predisposti" assai più al linguaggio delle storie che a quello dei numeri, ha importanti riflessi nella nostra selezione dei fatti, nella loro interpretazione/percezione e, in ultima analisi, sulle scelte politiche che ciascuno di noi poi compie.

p.s. lo stesso caso denota bene la distonia tra sentimento e scienza: il piccolo è ormai una cavia preda di egoismi e protagonismi estremi.

giovedì 6 luglio 2017

Tackling polarisation at the local level in Turin

In the frame of the workshop of the Eu project RASMORAD, Raising Awareness and Staff MObility on RADicalisation in Prison and Probation services, leaded by the Italian Ministry of Justice, on last 5 July 2017 in Rome, I shared the several experiences in preventing radicalisation in the city of Turin with the governor and prison police chief officer from the prison institution in Turin and the representatives of U.C.O.I.I.


sabato 1 luglio 2017

Formazione alla polizia municipale di Bologna

Tra resilienza e sicurezza delle comunità, il ruolo chiave delle polizia di prossimità nella prevenzione della radicalizzazione violenta. Il progetto europeo LIAISE2 di EFUS a Bologna.

  


 Documento finale del progetto: "Autorità locali contro l'estremismo violento"