giovedì 5 dicembre 2013

"Ending Terrorism in Italy" recensione italiana

Recensione di "Ending Terrorism in Italy": un libro che fornisce un contributo fondamentale per il passato e il futuro del nostro paese, analizzando come sia stata condotta e gestita la lotta al terrorismo sul piano legislativo e politico e le relative conseguenze che hanno reso problematica la chiusura della sua stagione, in particolare sotto il profilo dei due attori principali: i terroristi e le loro vittime.

giovedì 21 novembre 2013

“Figli delle vittime. Gli anni settanta, le storie di famiglia”: appunti di una fonte

Quasi due anni fa, si segnalava che per la prima volta la ricerca accademica, a distanza di oltre 30/40 anni dai fatti, iniziava a studiare il terrorismo considerando rilevante e utile al suo lavoro la testimonianza delle sue vittime (vedi L’accademia italiana di fronte agli anni di piombo).

Sui tre casi a me direttamente conosciuti, due lavori sono già stati recentemente pubblicati: da una parte, “Figli delle vittime. Gli anni settanta, le storie di famiglia” a cura di Maurizia Morini edito in Italia da Aliberti; dall’altra, “Ending Terrorism in Italy” di Anna Cento Bull e Philip Cooke, edito nel Regno Unito da Routledge.

Il primo unisce ricercatori italiani e francesi: Antonio Canovi, Charlotte Moge, Ilaria Vezzani, Jean-Claude Zancarini, Maurizia Morini che gravitano intorno alla École Normale Supérieure de Lyon. Il risultato sono 5 brevi saggi sulle narrazioni delle vittime del terrorismo ( di cui uno dedicato invece alle vittime della mafia), in particolare di figli e figlie delle vittime, e il loro ruolo testimoniale, insieme a quello della loro associazioni, nella difficile ricostruzione degli anni settanta del XX secolo.
A parte il capitolo sulle testimonianze dei figli di vittime per mafia, che pare fuori luogo, gli altri saggi seppur coerenti sul piano tematico, presentano una certa diversità di approccio, tanto interpretativo che metodologico.

Il primo capito “Familismo morale e richiesta di storia”, sottolinea il capovolgimento del concetto di “familismo amorale”, cioè la tipicità italiana di anteporre l’interesse familistico a quello verso le istituzioni  e il bene pubblico, in quanto l’attività delle associazione e i libri delle vittime si fondano “su valori di vita civile condivisa, di aspirazione alla giustizia e alla verità, punti fondamentali per l’esistenza di una società civile...”. E’ giustamente sottolineato che ”le memorie dei familiari delle vittime e il lavoro delle associazioni hanno fornito elementi che hanno consentito di non dimenticare e di cominciare a elaborare una memoria collettiva… a far nascere un desiderio di verità che si auspica diventi desiderio di storia comune condivisa”.

Il secondo capitolo di Ilaria Vezzani, presentando una cronologia dei fatti dal 1969 al 1982, fornisce una loro interpretazione che contiene analisi abbastanza discutibili, a partire da quella nota - in voga tra molti ex terroristi rossi e insegnanti ‘democratici’ - che  la scelta terroristica dei militanti di sinistra fosse collegata/giustificata dalla strategia delle tensione, delle bombe nere e le paure di un golpe fascista. Mentre l’autrice, partendo da Pasolini, si sofferma sui fatti violenti del dopoguerra e negli anni ’60 propedeutici ai progetti eversivi  della destra neofascista, nulla riporta dei fatti violenti e delle riflessioni ‘rivoluzionarie’  che avvenivano a sinistra, ad esempio con la rivista Quaderni rossi e quelle che seguirono fino al ’68, propedeutici alla nascita del brigatismo, le cui motivazioni e giustificazioni sono espressi chiaramente, col rigore del marxismo leninismo,  nella sterminata pubblicistica delle Brigate Rosse (e non vi è motivo di dubitare che dissimulassero delle paure da  ‘buoni democratici’). Va inoltre rilevato come le testimonianze di alcuni dei fondatori delle Br - in particolare quella di Alberto Franceschini raccolta da Giovanni Fasanella ( ‘Cosa sono le Br’ - Rizzoli editore) - contraddicano completamente la tesi di Vezzali.

Il terzo capito di Maurizia Morini è una comparazione dei “lessici familari” delle narrazione contenute nei recenti  libri di: Giovanni Berardi, Mario Calabresi, Andrea Casalegno,  Silvia Giralucci, Agnese, Giovanni e Maria Fida Moro, Eugenio Occorsio, Sabina Rossa (con Giovanni Fasanella), Benedetta Tobagi e Alberto Torregiani. Il risultato delle comparazione delle storie di questi figli delle vittime del terrorismo è una analisi corretta, ma modesta che meritava probabilmente maggiore approfondimento e spazio. E’ inoltre rimasta priva, in quanto usciti successivamente,dei libri di Luca Tarantelli e, soprattutto, di Massimo Coco che si presenta certamente come anomalo in quel panorama (vedi la recensione “Gli anni di piombo e la forza del destino”)

Concludo sull’ultimo capitolo, scritto da Antonio Canovi, nel quale, però, devo precisare subito che sono ‘parte in causa’ in quanto una delle fonti orali di quel saggio dedicato alle tre realtà associative delle vittime in Italia: la Casa della Memoria di Brescia, l'Associazione tra i familiari delle vittime della stage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, e l’Associazione Italiana Vittime del Terrorismo (Aiviter).
Intervistato il giorno in cui scrivevo il post sull’accademia e gli anni di piombo, ad ottobre del 2012 ricevetti dall’autore la bozza definitiva del saggio. Pochi giorni dopo risposi scrivendo una lunga lettera il cui incipit è il seguente: “….mi vedo obbligato a svolgere una serie di osservazioni al saggio che mi avete gentilmente anticipato. Osservazioni che sinceramente non mi sarei mai aspettato di dover stendere e che mi indurranno a dover valutare se accordarvi l'utilizzo delle parti a me relative.
Non lo accordai, così nel libro compaio come fonte orale, ma la mia oralità è assente esplicitamente e resa talvolta implicita, talvolta curiosamente imputata a fattore trasversale delle tre associazioni. Ma non desidero addentrarmi troppo nel merito di quella polemica. Sottolineo solo che il risultato è ambiguo quanto basta. Già l’originale del saggio in bozza, e quindi l'intenzione dell'autore, era incentrata all'80% sull'Associazione di Bologna, questo è ancora più evidente nella versione finale pubblicata. Il tutto senza in vero nulla aggiungere all'esautivo saggio, già edito 10 anni fa, di Anna Lisa Tota, La città ferita.
Il saggio si conclude, in modo esemplificativo, presentando il testo integrale del manifesto commemorativo della strage alla stazione di Bologna,  per il 2 agosto 2012. Questo l’incipit a caratteri maiuscoli: “La strategia delle stragi dal dopoguerra ad oggi ha impedito all’Italia di diventare una democrazia compiuta. E’ nel cuore torbido delle istituzioni che vanno cercati i mandanti”. Conclusione davvero curiosa di un raccolta di saggi indirizzati alle narrazioni dei figli delle vittime degli anni ’70. Le testimonianze di quegli anni le hanno fatte i figli delle vittime del terrorismo rosso (e in un solo caso nero, non stragista, come Occorsio), come si evince dallo stesso capitolo terzo del libro, ma a Bologna sembrano più interessati a tutto il dopoguerra italiano, disegnato come un Stato inquinato da un cuore torbido. Mancava solo che aggiungessero “da attaccare”, per avere lo slogan brigatista che svela l’equivoco di fondo del saggio di Antonio Canovi e l'interpretazione  faziosa del secondo capito di Ilaria Vezzani.

Di tutt’altro spessore il saggio di Anna Cento Bull. Prossimamente

sabato 12 ottobre 2013

La Rete Ran Vvt a Roma

La Rete di sensibilizzazione al problema della radicalizzazione - RAN, isitutita dalla Commissione Europea. La “Voce delle Vittime del Terrorismo” (VVT) è uno dei gruppi di lavoro della RAN e si riunirà a Roma presso l'Università di Tor Vergata il 15 e 16 Ottobre 2013.

mercoledì 26 giugno 2013

Dopo il caso Delnievo, la prevenzione verso il rientro dei combattenti in Siria



Qualche giorno fa è giunta in Italia la notizia di un nostro connazionale morto in Siria, combattendo con l'ala oltranzista della ribellione contro il regime di Bashar al-Assad. "Giuliano Delnevo, 23enne genovese, si era convertito all'islam nel 2008. Di famiglia non musulmana, si era avvicinato alla causa probabilmente grazie alla predicazione online, in un percorso che lo aveva portato alla radicalizzazione e ad avvicinarsi a gruppi estremisti." (vedi la sua storia qui)
Giampiero Massolo, direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis) sottolinea come l'Italia non sia un "bacino di reclutamento", ma che il rischio di una radicalizzazione autonoma sia pur sempre presente. Il vero problema non è infatti l’uscita di italiani verso la Siria, ma soprattutto il rientro di cittadini europei, o meno, che dalla Siria rientreranno in futuro in Europa, molti dei quali passando dall’Italia.
Il punto critico, su cui si sono allertate alcune nazioni europee, i loro ministri degli Interni e la Commissione Europea è infatti il numero crescente di combattenti stranieri (foreign fighters) in Siria: il 90% arriva da paesi come Libano, Yemen e dal Nord Africa, il 10% arriva invece proprio dall’Europa. La vera preoccupazione è connessa ai rischi del loro rientro nei rispettivi paesi di questo 10% e di una parte del restante 90% come migranti. Un parte di loro, potrebbe infatti rappresentare un serio pericolo per la sicurezza interna ai vari paesi UE, trattandosi di soggetti, non solo radicalizzati, ma dotati di una esperienza fattiva di combattimento che può trasferirsi nei nostri paesi.
Si tratta allora di attivare delle misure preventive rivolte ad una adeguata formazione verso tutti coloro che lavorano alle frontiere, in modo particolare alle nostre complicate frontiere, come Lampedusa. Gli stessi cittadini europei infatti non potrebbero tornare nei rispettivi paesi per via legale, essendo molti già conosciuti come espatriati in Siria.
Tali misure preventive riguardano una attività di formazione atta a fornire una piena consapevolezza di questa pericolo ai soggetti coinvolti a vario titolo nelle attività di frontiera e immigrazione: dalla polizia al personale sanitario e di soccorso, dalle ONG che svolgono attività di accoglienza e supporto ai migranti, ai leader delle comunità locali e a quelli religiosi.
La "Rete sulla consapevolezza dei problemi della radicalizzazione" (RAN), istituita dalla Direzione Generale Affari interni della Commissione Europea, sta raccogliendo proposte e progetti concreti per attivare tali misure preventive. C’è da augurarsi che il nostro governo le faccia poi proprie non contando solo sulle sue ottime capacità di intelligence, che per altro, fino ad oggi, ci hanno messo al riparo da attentati terroristici di matrice jihadista.

domenica 26 maggio 2013

Il professore e il terrorista: la strana congiunzione Chomsky-Adebolajo

"Aprile di solito è un buon mese nel New England, l’inverno allenta la sua presa e appaiono i primi segni della primavera. Ma non quest’anno. Boston è stata sconvolta dall’attentato alla maratona del 15 aprile e dalle tensioni della settimana successiva. Molti miei amici erano al traguardo quando le bombe sono esplose. Altri abitano vicino al posto in cui è stato catturato Dzhokhar Tsarnaev, il secondo attentatore. Il giovane agente di polizia Sean Collier è stato ucciso davanti al mio ufficio. A noi occidentali privilegiati non succede spesso di vedere cose che molti altri, per esempio gli abitanti di un villaggio dello Yemen, vivono ogni giorno." Scrive Noam Chomsky commentando l'attentato alla maratona di Boston.
A confermare questa osservazione dell'illustre insegnante di linguistica al Mit di Boston, sono giunte un mese dopo da Londra le parole dal 28enne Michael Adebolajo, il cittadino britannico di origine nigeriana convertitosi all’Islam nel 2001, che dopo l’omicidio del soldato Lee Rigby, si confessa con le mani sporche di sangue davanti ad una telecamera dichiarando: «Mi scuso con le donne che hanno dovuto assistere a questo oggi, ma nella nostra terra le donne devono vedere le stesse cose». (guarda il video)

La giustificazione dei fatti da parte del professor Chomsky e del terrorista Adebolajo collimano: l'orrore visivo osservabile nel villaggio dello Yemen o nelle terre della Nigeria giustifica la reazione (terroristica) che vuole presentare il medesimo raccapricciante spettacolo nelle città dell'Occidente.

Questo argomenta conferma l'assunto che il terrorismo si prefigge di raccontare le sue storie non attraverso lo sguardo delle vittime, ma attraverso quello degli spettatori.*
Nel racconto del terrorista è importante rimarcare che la vittima non è quella appena ammazzata, nel caso di Londra visibile a terra pochi metri dietro Michael Adebolajo mentre spiega di fronte ad una telecamera il motivo del suo gesto agli spettatori, ma è il suo gruppo 'etnico' che rappresenza le istanze di altre vittime.

Il 'trucco' narrativo presupposto di tali storie risiede nel fatto che istintivamente il lettore di Chomsky e l'ascoltatore di Adebolajo reputino:
1) che le violenze nello Yemen e nella Nigeria siano responsabilità tutte occidentali.
2) Che l'inizio della spirale delle violenza risieda nel 'peccato originale' dell'Occidente che dal colonialismo arriva alla guerra al terrorismo lanciata da Bush jr. dopo l'11/9.
3) Che la vittima più debole abbia qualche ragione a cercare una vendetta disperata.

Chi si prende la fatica di controllare le origini e le cause delle violenze in Yemen e in Nigeria?
Chi conosce a fondo la storia di quei due paesi lontani?
Chi si chiede se l'intervento occidentale nei paesi arabi o africani alimenti in ogni caso più violenza, o se sia peggiore la soluzione del non intervento, come in Siria?

Il paradosso è che il vecchio professore americano abbia ceduto alla logica narrativa in cui è caduto il giovane terrorista britannico. La logica per cui non la vittima reale, ma un gruppo 'etnico' che in nome delle vittima si 'vittimizza' e cerca un nemico, vero o presunto che sia, al quale chiedere conto e sul quale vendicarsi.

La stessa logica, seppur con storia capovolta, è stata utilizzata da Bush quando ha vittimizzato l'America del post 11 settembre e ha lanciato la guerra al terrorismo. Opzione che non era certo quella espressa dai sopravvissuti e dai familiari dei 3000 morti degli attentati, ma del quale il presidente USA ha voluto farsi interprete, alimentando  così, a sua volta, una barbarica spirale di vendette e contro-vendette (oltre ad aver minato il fragile terreno delle garanzie e delle libertà democratiche).

Tale logica è stata finalmente spezzata dal presidente Obama pochi giorni fa, dichiarando terminata la guerra al terrorismo, ma di fatto era già cambiata durante il suo primo mandato nelle politiche di antiterrorismo della sua amministrazione. Come quando, ad esempio, sui siti web jihadisti il Dipartimento di Stato aveva sostituito la propaganda delle loro narrazioni con i dati sulle loro vittime, dai quali si comprendeva bene che i loro attentati terroristici colpivano essenzialmente solo altri mussulmani.

Il terrorismo si contrasta dunque restando sul terreno dello Stato di diritto, ma dal punto di vista narrativo, oltre che etico e civile, opponendo allo sguardo avvilito e terrorizzato dello spettatore, quello della vittima 'vera': quella di cui possono farsi interpreti solo i sopravvissuti o i familiari, e nessun altro (!): sia questi un capo dello stato, un esimio professore, o un giovane radicalizzato.

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*Si veda: Terrorism, Media, and the Ethics of Fiction a cura di Philipp Schweighauser, Peter Schneck, p. 42

lunedì 13 maggio 2013

Premiati gli studenti del progetto in memoria delle vittime del terrorismo

Leggi articolo: "Premiati gli studenti del progetto in memoria delle vittime del terrorismo e lectio magistralis del prof. Orsini"

Torino, 2 maggio 2013.
Lectio magistralis del prof. Alessandro Orsini, a Palazzo Lascaris, nella sede del Consiglio regionale del Piemonte, prima della premiazione degli studenti, del liceo Alfieri, che hanno partecipato con successo al programma didattico, "Memoria Futura: da ieri a domani - ricordare per saper vedere". Prima della presentazione dei lavori da parte degli studenti, il vicepresidente del Consiglio regionale, Roberto Placido, ha ricordato l'importanza dell'attività dell'Associazione italiana vittime del terrorismo (Aiviter).
Interviste Alessandro Orsini, docente universitario e Dante Notaristefano presidente Aiviter

domenica 21 aprile 2013

La casta ieri e oggi, tra sinistra storica e terroristi

Il ceto politico è diventato una casta senza ricambio e senza rapporti di vissuto personale con la vita di lavoro. Una casta che vive di sogni e di parole, ma che non conosce la vita né la società reali. Una casta di privilegiati per i quali il peso di un lavoro produttivo, di una disoccupazione, di problemi di indigenza non protetta da solide amicizie politiche e legami, favorisce le astrazioni più totali. Astrazioni che in alcune menti di livello (pochissime e per lo più di provenienza dal mondo del lavoro) producono proposte o, quanto meno capacità critiche, ma che nella generalità dei casi non producono nulla e nei casi peggiori producono criminalità: bianca (corruzione) e rossa (sangue).
Non si tratta di una citazione da Antonio Stella né da qualche grillo o grillino. Il concetto di astrazione non sarebbe alla portata intellettuale di nessuno dei recenti moralizzatori anticasta. Non si tratta neppure di una frase scritta negli ultimi 5 o 10 anni. Siamo in tutt’altro contesto storico e di discorso da quello che si può immaginare. Siano nel 1987, il suo autore è Sergio Lenci, il testo è tratto dalle sue memorie intitolate “Colpo alla nuca”:

Venerdì 2 maggio 1980: siamo nel pieno degli anni di piombo e quattro terroristi di Prima Linea irrompono nello studio di Sergio Lenci, architetto romano specializzato in edilizia carceraria. Gli mettono un cerotto sulla bocca, lo trascinano in bagno, lo spingono sul pavimento tra il water e il lavandino e gli sparano un colpo mortale: una pallottola sola, calibro nove, dritta alla nuca. Ma Lenci miracolosamente sopravvive, con la pallottola per sempre conficcata nella testa e con un grande desiderio: capire il perché del terrorismo e il senso, se esiste, della violenza quale forma di lotta. Le sue memorie registrano il tormento di chi dapprima si chiede "perché io?", poi soltanto "perché?". Ma il terrorismo non dà risposte. Neppure gli incontri in carcere con Giulia Borelli, unica donna del commando, offriranno una giustificazione plausibile al calvario fisico e morale che Lenci è stato condannato a vivere.
Tale memoriale presentato al Premio di Pieve Santo Stafano (Arezzo) dedicato a diari, memorie ed epistolari, fondato da Saverio Tutino, vince l’edizione 1987 e viene pubblicato dagli Editori Riuniti. Poi resta per due decenni un testo difficilmente reperibile e viene riedito da “il Mulino” solo nel 2010. Nel frattempo Lenci è purtroppo morto nel 2001.
Il brano sopra riportato è un inciso che compare come riflessione conclusiva, in una pagina di diario datata 25 aprile 1987, che commenta gli articoli apparsi sul n.1 della rivista MicroMega. Le ragioni della sinistra” dello stesso anno e dedicati a rendicontare il secondo di due seminari che si sono tenuti al carcere di Rebibbia, tenuti da Gino Giugni, Giuliano Amato, Norberto Bobbio e Carol Beebe Tarantelli con un gruppo di terroristi tra i quali Azzolini, Bignami, D’Elia, Franceschini ed altri.
La frase che procede tale inciso poneva infatti un interrogativo retorico su “come mai questi giovani (oggi non più tanto giovani) ex terroristi continuino quasi maniacalmente a occuparsi di politica, non come un cittadino comune, ma come interlocutori privilegiati del potere.” Poi prosegue: “Mi sembra di capire che essi continuino quella prassi della politica come professione, come lavoro, che è una caratteristica della nostra repubblica di oggi”. E conclude: “Può apparire paradossale, ma non credo che lo sia: la società delle aree omogenee e dei collettivi carcerati (quelle in cui si organizzavano gli ex terroristi dissociati, n.d.a.) è, in piccolo, speculare a quella dei partiti, una società assistita, non produttiva, con legami non chiari con il mondo del lavoro”.
Il testo di Lenci, la seconda vittima del terrorismo a scrivere le sue memorie dopo Mario Sossi, tra le innumerevoli denuncie che contiene di grandissimo interesse, presenta questa acuta analogia che serve a gettare luce su aspetti rilevanti ancora oggi, a distanza di 25 anni dalle sue parole.
Nel caso specifico, il ruolo politico di primo piano giocato dai terroristi anche quando diventati ex (prima in carcere e poi da uomini liberi in seno a organizzazioni ed associazioni politiche quando non direttamente alle istituzioni locali e nazionali) è una denuncia che non ha il solo carattere etico che recita: queste persone prima combattevano lo Stato e ora vi collaborano senza avere detto tutta la verità sulle loro storie di terroristi e quindi senza rispetto verso le legittime aspettative delle loro vittime. Lenci entra anche nel merito squisitamente politico-sociale relativo al professionismo del ceto politico, caratteristica che permea la sinistra storica italiana, di ieri e di oggi, sia nella sua classe dirigente di partito che in quegli elementi deviati che sono i terroristi o ex tali*. 
Questo è solo un saggio della profondità delle varie analisi contenute nel testo di Sergio Lenci le quali sono una vera miniera che ancora deve essere finita di esplorare. Molte di queste analisi riguardano l’ambiguo atteggiamento tenuto dagli ex terroristi, da ufficiali e magistrati dello Stato, da dirigenti del PCI e PSI. 

P. S. (2017) il mantenimento di un 'engangement' politico dei 'former', cioè degli ex terroristi, è stato osservato anche in quello più recente di matrice jihadista. Questo dato, che sottolinea la natura squisitamente politica dei vari terrorismi, necessità di essere osservato anche da un'ottica opposta a quelle di Sergio Lenzi: l'impegno politico degli ex terroristi italiani 'dissociati' o di quelli 'jihadisti' di molti paesi, almeno in alcuni casi, si è esplicato in attività sociali, talvolta nello stesso contesto carcerario, finalizzate al recupero e al disengangement dalla violenza o deradicalizzazione.


*Si tratta di un tema sul quale di recente ha riflettuto Miguel Gotor (filologo, poi storico, successivamente editorialista di "la Repubblica" e di Italiani/Europei, infine parlamentare dell'area di Bersani) in senso opposto: individuando una parentela tra "odio di classe" delle terroristi rossi di ieri e l'antipolitica e l'odio verso la casta di oggi (in "Memoriale della Repubblica")

giovedì 14 marzo 2013

Catalogo della mostra "L'Europa contro il terrorismo. Lo sguardo della vittima"

Il catalogo (in inglese) della mostra "Europa contro il terrorismo, lo sguardo della vittima" , da me curata per la parte italiana, sul sito della Commissione Europea."Europa contro il terrorismo, lo sguardo della vittima" è un progetto culturale europeo sviluppato e prodotto dalla Fundaciòn Miguel Angel Blanco in collaborazione con l'Associazione francaise des Victimes du terrorisme AfVT e l'Associazione Italiana Vittime del Terrorismo AIVITER, con il sostegno finanziario della Commissione europea.

La mostra allestita a Bruxelle in occasione della Giornata europea in memoria delle vittime del terrorismo

domenica 27 gennaio 2013

Le vittime della Shoah e quelle del terrorismo

INTERVENTO PER LA RIUNIONE PLENARIA DELLA RETE DI SENSIBILIZZAZIONE AL PROBLEMA DELLA RADICALIZZAZIONE - Radicalisation Awareness Network (RAN) - DELLA COMMISSIONE EUROPEA, DG AFFARI INTERNI. Bruxelles, 28.01.2013



In occasione del lancio delle rete RAN nel settembre 2011, paragonai la narrativa delle vittime del terrorismo a quella dei sopravvissuti dei campi di concentramento nazisti. L'insieme delle testimonianza dei sopravvissuti, succedutesi nel secondo dopoguerra, tra pubblicazioni ed interviste audiovisive, costituiscono un corpus letterario dotato di un carattere fondante dei valori dell'edificio europeo che in quel periodo prendeva avvio grazie all'opera dei vari Monet, Shumann, Adenauer, De Gasperi.
Tale corpus possiamo considerarlo anche come forma di contro narrazione rispetto alla propaganda fascista, razzista, nazionalista e sciovinista che si era dispiegata tra le due guerre in molti paesi europei. L'intento reiterato di tanti testimoni dell'olocausto era infatti: “racconto oggi perché non si ripeta domani”.

Oggi, a distanza di decenni, nonostante le molte iniziative didattiche che ancora si attuano nelle scuole di tutta Europa per rendere vivo il monito di quelle testimonianze, sappiamo che quel corpus non ha impedito che gruppi e singoli si facessero interpreti attivi, e spesso violenti, di nuove forme eredi di fascismo o razzismo. Ma, d'altra parte, anche se non è possibile misurare quanto quel corpus e la sua di diffusione tra i giovani europei - pensiamo alla lettura del diario di Anna Frank, per fare un solo esempio - abbia funzionato in termini di prevenzione, è innegabile che esso abbia svolto un ruolo pedagogico determinante nella formazione culturale e nelle capacità critiche di intere generazioni, largamente immuni da virus totalitari e xenofobi.

L'ipotesi che formulai in quell'occasione fu che le vittime delle terrorismo con le loro testimonianze possano svolgere un ruolo analogo nel contesto attuale dei pericoli di radicalizzazione violenta in Europa.
Quali le differenza, quali le analogie tra le due narrative? L'ipotesi è confermata? A quali condizioni?

Tra le analogie ne segnalo tre.
La prima è che da parte delle vittime del terrorismo è fatto proprio lo stesso approccio descritto da Primo Levi in relazione alle vittime dell’Olocausto verso i loro carnefici: “Né perdono, né vendetta, ma giustizia”.
La seconda, l'obbligo, seppur spesso assai faticoso, di testimoniare. Tzvetan Todorov insegna che quando gli avvenimenti vissuti dall’individuo o dal gruppo sono di natura eccezionale o tragica, il diritto di ricordare e di testimoniare diventa un dovere. Un dovere al quale le vittime del terrorismo raramente si sottraggono nelle scarse occasioni loro offerte.
La terza il valore e il limite di tale testimonianza. E’ sempre Primo Levi che ci insegna che non spetta alle ex vittime di capire i propri assassini. Le loro testimonianze costituiscono solo una parte delle fonti utili per ricostruire la storia e comprendere la verità dei fatti, ma possiedono un valore etico e morale che è imprescindibile ad un pedagogia indirizzata alla tolleranza e alla convivenza civile democratica e non violenta.

Passo ora alle differenze.
La più evidente è quella quantitativa: un numero minore di vittime segue evidentemente un corpus minore di opere.
C'è poi la diversificazione geografica e temporale dei fatti di terrorismo che spaziano dagli anni '60 del XX secolo ad oggi in aree diverse, con intensità e caratteristiche proprie.
La differenza che però mi interessa sottolineare è quella che rende più problematica la narrativa delle vittime del terrorismo nei confronti dei fruitori delle loro testimonianze.
Tale differenza, risiede nella natura stessa del fenomeno che sfugge ad una lettura immediata e ad una interpretazione manichea. Non è un caso che sia quasi un secolo che la comunità internazionale cerca una definizione condivisa che definisca in modo univoco il terrorismo.
Le vittime del terrorismo sono vittime, infatti, di un fenomeno di non facile interpretazione da parte della società e della pubblica opinione, per il carattere equivoco della sua comunicazione e quello indiretto dei suoi metodi di agire. Un fenomeno nel quale il movente degli atti è giustificato dagli autori con cause "buone" o in risposta a gravi ingiustizie patite, mentre il suo agire si indirizza con violenza, nella maggioranza dei casi, verso soggetti completamente casuali, o debolmente connessi alle presunte responsabilità addebitate loro dagli autori.
In sintesi, i piani di lettura del fenomeno sono molteplici e non tutti espliciti, e questa peculiarità non facilità il riconoscimento delle vittime come parte 'positiva' del conflitto nella quale identificarsi da parte del corpo della società. Una parte di questo resta infatti coinvolto nella propaganda e individua come eroe, il terrorista; un'altra parte resta neutrale al conflitto, interdetta dalla complessità ed opacità dei molteplici interessi delle parti in gioco.

Allora, se il superstite della barbarie nazifascista, nel suo narrare, descrive e mette in guardia dalla banalità del male, per usare la definizione di Hanna Arendt, in un contesto che è estremo, per violenza organizzata, ma lineare per i ruoli delle parti (chi sono i responsabili, chi le vittime, chi i soggetti che hanno aiutato le vittime, chi quelli che hanno aiutato i carnefici…); la vittima del terrorismo, dal canto suo, deve descrivere un male che si manifesta attraverso un atto che comunica, oltre un terrore diffuso, un messaggio il cui destinatario non è sempre chiaramente identificabile o univoco, e i cui attori, ad eccezione delle vittime stesse, agiscono in un contesto geopolitico internazionale nel quale sono portatori di molteplici interessi, taluni palesi altri occulti.
Prendiamo il caso di ETA in Spagna. Qualcuno può negare che la Francia, paese confinante con i Paesi Baschi, abbia avuto un atteggiamento univoco e trasparente verso i terroristi dell' ETA che agivano di nascosto nel suo territorio? Una delle prime lezioni apprese dalle vittime del terrorismo italiane, fin dagli anno '80, è che il terrorismo, anche quello che può sembrare il più locale ed endogeno, è sempre un fenomeno internazionale.
Ancora più difficile da raccontare è il contesto degli attentati di matrice jihadista con la sua rete di cellule che si interseca in una fitta e opaca rete di relazioni geopolitiche, la cui complessità è incomparabile con la semplicità dello schema in campo durante la Seconda Guerra mondiale: con le Potenze dell'asse, da una parte, e le Nazioni Alleate, dall'altra.

Questa differenza, che evidenzia la complessità che la narrazione delle vittime del terrorismo deve affrontare per descrivere il contesto nel quelle si sono trovati a subire la violenza e il dolore, trova un soluzione proprio nel livello sovranazionale, come quello europeo, che svincoli in qualche modo, i fatti e il loro valore morale, dalla contingenza politica nazionale, dove rischiano di restare chiusi in letture sterili o strumentali, e così depotenziate del loro valore morale e pedagogico.
Pensiamo alla situazioni delle vittime dell'attentato dell'11 Marzo 2004 alle stazioni di Madrid. Ricorderete che il giorno stesso si affrontarono due ipotesi diverse sulla responsabilità di quella strage, quella dell'Eta e quella Jihadista, avanzate in modo politicamente strumentale dai due maggiori partiti spagnoli in funzione delle imminenti elezioni parlamentari e in relazione al loro diverso atteggiamento di fronte all'intervento nella guerra in Iraq e di fronte al separatismo Basco. In questo modo le vittime potevano osservare che il loro dolore non aveva un valore di per sé, assoluto, ma acquisiva un valore relativo in funzione dell’ideologia in nome della quale erano state attaccate.

E' quindi solo da un livello sovranazionale che possono giungere a maturazione le condizione di premessa che affidano valore alla testimonianza delle vittime del terrorismo. Il primo passo in questo senso è stata l'istituzione della Giornata Europea in Memoria delle Vittime del terrorismo introdotta dal Europarlamento nel 2004 e il documento di lavoro della Commissione Europea del 2005 intitolato "Lotta al terrorismo. Un memoriale dedicato alle vittime del terrorismo" il cui incipit recita: "Quando un cittadino della UE è vittima del terrorismo è l'intera comunità dei cittadini dell'Unione ad esterne vittima". Questi due atti sono stato il prologo alle attività che si sono succedute negli anni successivi, e che attraverso progetti e reti sostenute e finanziate dalla Commissione, hanno permesso alle vittime e alle loro organizzazioni di maturare una analisi sempre più approfondita delle criticità e delle potenzialità delle loro voce.

Un primo quadro delle condizioni per cui la voce delle vittime può diventare una contro narrazione efficace, analoga a quelle dai reduci della Shoah, sono contenute nel documento con le raccomandazioni preparate del nostro gruppo di lavoro in seno alla RAN.
Ma la più importante è presente anche nel 'Discussion paper' di domani, laddove si richiede supporto per le vittime del terrorismo. Tale supporto va inteso come necessità di elevare il loro status sociale e morale, con politiche che, favorendo un percorso di resilienza, valorizzi e potenzi l'autorevolezza della loro voce e testimonianza di fronte alla pubblica opinione. Queste politiche di supporto, a livello locale, nazionale ed europeo, sono quindi una precondizione perché la voce delle vittime del terrorismo acquisti il valore e la forza di una contro narrativa dotata di valore pedagogico nella prevenzione del radicalismo violento tra i giovani e gli studenti, da una parte, e capace di contrastare le differenti forme di propaganda con i loro messaggi di distruzione, odio, razzismo e intolleranza, dall’altra.

Grazie della vostra attenzione.


Comunicato Stampa della Commissione Europea: Più agguerriti contro l’estremismo violento