martedì 22 febbraio 2011

La nemesi nell'iter di Gheddafi



Salito al potere nel 1969, Muammar Gheddafi, dopo la primi crisi petrolifera si trovò - come molti leader arabi - a gestire i giganteschi profitti derivanti dall’esportazione del greggio, con i quali finanziò gruppi armati in tutto il mondo: Irlanda del Nord, Mauritania, Rhodesia, Namibia, Isole Canarie, Oman, Angola, Sud Africa, Thailandia, Filippine, Colombia, Salvador, Kurdistan, Nuova Caledonia, Vanuati, Nuove Ebridi.
Negli anni ’70 il colonnello libico si guadagno l’appellativo di Padrino del terrorismo, istituendo addirittura un sistemi di premi ed incentivi per le operazioni terroristiche più pericolose e prestigiose, come ad esempio le gratifiche ai membri di Settembre Nero che nel 1972 presero parte all’attacco delle Olimpiadi di Monaco.

Negli anni ’80 l’ostilità americana ed atlantica verso il regime libico aveva avuto due momenti critici. Sotto l’amministrazione Carter, il 27 giugno 1980 quando dei caccia della NATO cercarono di intercettare due aerei libici, tra i quali quello presidenziale del Colonnello, abbattendo un Mig-23 libico (ritrovato sulla Sila 20 giorni dopo) e, per errore, probabilmente il volo civile IH870 diretto da Bologna a Palermo, esploso sul cielo di Ustica, causando la morte di 81 persone.
Successivamente, sotto l’amministrazione Reagan, nell’attacco a Tripoli e Bengasi del 1986 condotta dalla Sesta flotta USA nel Golfo della Sirte, dopo l’attentato a "LaBelle", la discoteca saltata in aria a Berlino ovest, provocando tre vittime e 200 feriti.


L’atto più eclatante cui il regime libico è stato accusato è la strage di Lockerbie: il volo Pan Am 103 che esplose in volo in conseguenza della detonazione di un esplosivo al plastico sopra la cittadina scozzese e dove perirono 270 persone, 189 delle quali di nazionalità statunitense.
 Successivamente, altre fonti ritengono che il mandante non fu la Libia, come reputavano inglesi ed americani, ma l’Iran, come ritorsione per l’abbattimento per errore di un aereo di linea iraniano avvenuto il 4 luglio 1988 da parte della nave da guerra USA “Vincennes”. Come riportato anche da una intervista all’ANSA del giudice Priore, l’ideatore dell’attentato fu il capo del Fronte popolare per la liberazione della Palestina – Comando Generale (FPLP_CG) Ahmed Jibril, che trovandosi a corto di fondi per la sua organizzazione si rivolse agli iraniani, inviando a Theran il suo emissario Halef al-Dalkamuni a trattare con i ministro degli Interni Machtashimi Four, per ottenere fondi in cambio dell’attentato.

Un altro attentato, che viene spesso dimenticato, è invece di chiara matrice libica, le cui origini risalgono a quando dal 1973 Gheddafi portò avanti il piano di costituzione di una repubblica sahariano sotto l’egemonia libica e si intromise nel conflitto del Ciad fino a quando, nel 1985, la riduzione dei ricavi dei petroldollari non lo costrinse a desistere.
Il 19 settembre 1989 per ritorsione contro la Francia che si era opposta all’espansione libica in Ciad, viene fatto esplodere il Dc-10 della compagnia privata francese Uta, in volo da Brazzaville a Parigi, precipitato nel deserto africano del Tenerè e causando la morte di 170 persone di 18 nazionalità, tra i quali 9 italiani.

Un relazione con il colonnello libico al tempo del conflitto in Ciad è assai probabile che esista con uno dei “misteri d’Italia”, quello della strage di Ustica: il disastro aereo in cui persero la vita 81 persone nel cielo tra le isole di Ustica e Ponza, il 27 giugno 1980, cui seguì il ritrovamento di un Mig libico abbattuto sulla Sila. E’ ancora il giudice Priore, che sul quel disastrò indagò tra mille difficoltà, a suggerire che si sia trattato di un operazione militare sotto copertura, fallita, atta a intercettare e colpire un volo aereo con a bordo il leader libico.

Al giungere della fine della guerra fredda, sull’onda della guerra della jihad antisovietica in Afghanistan, nasce l’odierna Jihad islamica internazionale, la rete di Osama bin Laden. Nel corso degli anni ’90 fu il Nord Africa il territorio sul quale la jihad sferrò la sua offensiva contro i regimi arabi laici e moderati: Egitto, Algeria, ma anche Libia. E’ poco noto, ma paradossalmente fu proprio il leader libico ad emanare il 15 aprile del 1989, dopo aver subito un attentato fallito, un mandato d’arresto contro bin Laden, trasmesso all’Interpol ben prima che diventasse il terrorista più ricercato dl mondo, dopo l’11 settembre 2001.


Se la finalità di Al-quaed che ci arriva dai media è la distruzione di Israele e dei suoi alleati occidentali, è noto che l’obbiettivo vero è quello della costruzione di Califfato panislamico in tutto il mondo mussulmano sunnita e quindi, come dimostrano la triste sequenza di azioni terroristiche che hanno imperversato negli ultimi 15 anni nei paesi mussulmani, assai più che in quelli occidentali, le sue azioni si rivolgono a quei paesi che vi si oppongono, come Gheddafi in Libia.
 
Questo è il motivo per cui, l’ultima fase dell’attività del colonnello si è contraddistinta dall’allontanamento dal terrorismo e dai tentativi riusciti di accreditarsi con i paesi occidentali. Pur di sviluppare rapporti commerciali con gli “infedeli”, ha pagato risarcimenti milionari sia alle famiglie delle vittime di Lockerbie che del DC10 d’Uta.

I fatti in Libia di questi giorni prescindono parrebbero la nemesi dei rapporti tra il colonnello e il terrorismo.

venerdì 11 febbraio 2011

L’accademia italiana di fronte agli anni di piombo


Non era mai capitato prima. Nel giro di tre mesi, tre ricercatrici si sono rivolte all’Associazione Italiana Vittime del terrorismo, ad altre associazioni, nonché a singole vittime, per i loro studi sull’Italia degli anni di piombo. Tre ricerche in diversi ambiti: due di carattere storico, una di carattere giuridico-politico. Tre ricercatrici italiane, donne, che lavorano in tre università fuori dall’Italia: in Spagna a Madrid, in Francia a Lione e in Gran Bretagna a Bath.

L’accademia inizia quindi solo adesso, a distanza di oltre 30 anni dai fatti, a studiare il terrorismo considerando rilevante e utile al suo lavoro la voce delle vittime. Non che la storiografia abbia sempre avuto buoni rapporti con i testimoni: a prescindere dall’oggetto della sua indagine, la testimonianza è sempre una fonte difficile da maneggiare. Ma non c’era certo voluto tanto tempo, per fare un esempio, a chi studiava i campi di concentramento nazisti, per interrogare le vittime superstiti dell’Olocausto.

Queste indagini di oggi, poi, non può essere un caso che riguardano chi lavora in università fuori dal nostro confine nazionale. Perché all’accademia italiana non era mai venuto in mente di interrogare le vittime? Le ricerche universitarie svolte in Italia sul terrorismo non sono certo mancate e sono, per la gran parte, tutt’altro che recenti. La loro anomalia risiede in un dato tanto semplice quanto sconcertante. Tali ricerche sono state svolte sulla base di una sola fonte principale: gli atti giudiziari. Alla quale si è sommata talvolta qualche fonte politico-istituzionale e la testimonianza degli ex terroristi.

Mai prima d’ora era stata dunque presa in considerazione la voce e il discorso delle vittime di quel fenomeno, quale fonte per interpretarlo.
Sondare le cause di questo ritardo può essere una ricerca storica interessante in sé, ma assai complessa. Segnalo qualche spunto.

Il primo è che il disinteresse verso le vittime del terrorismo ha molteplici versanti. A quello accademico, si devono aggiungere quello delle istituzioni dello Stato e quello dei media. Con un po’ di coraggio, si dovrebbe anche segnalare quello della società civile italiana, rimasta spesso ingessate nelle interpretazioni del terrorismo delle varie scuole di partito. C’è quindi un contesto generale che di fatto ha marginalizzato per decenni la voce delle vittime.

Un secondo dato risiede nel fatto che il fenomeno terroristico, al di là che fosse riemerso ancora episodicamente con le nuove BR, alla fine degli anni ’90 si reputasse un capitolo del XX secolo. Il clamore dell’11/9 lo ha invece riportato al centro della scena a livello mondiale come terribile incipit del nuovo secolo, così come era successo per l’inizio di quello precedente con l’attentato a Sarajevo contro l’arciduca Ferdinando che condusse alla Grande guerra.

Un terzo spunto deriva dal fatto che la voce delle vittime ha iniziato a farsi sentire in modo corale solo quando le vittime si sono dotate di un media autonomo: nel 2002 con il sito internet di Aiviter e relativo memoriale, cui sono seguite le pubblicazioni dei giornalisti G. Fasanella (I silenzi degli innocenti) e R. Arditti (Obiettivi quasi sbagliati), e poi ancora i libri scritti dai figli e dalle figlie delle vittime (Calabresi, Rossa, Tobagi, Moro,..).

Quest’ultimo punto, mi ricorda però di segnalare un paradosso. Tra le sole tre testimonianze delle vittime scritte nella vicinanza dei fatti, ce ne è una assai particolare che somma al dato di vittima dell’autore, la sua professione: quella di storico. Se infatti i due libri di Sossi e Lenci, sono libri di testimonianza scritti sull’esperienza diretta del rapimento del primo e dell’essere sopravvissuto ad un colpo d’arma da fuoco in testa, il secondo; il libro di Angelo Ventura, ferito a Padova dall’Autonomia Operaia, non è un libro di testimonianza, ma un libro di storia vero e proprio. Riedito l’anno scorso con il titolo “Per una storia del terrorismo italiano” si tratta della raccolta delle ricerche che Ventura ha compiuto e pubblicato su riviste storiche negli anni ottanta. Il paradosso sta nel fatto che la sua analisi sia oggi considerata datata da altri storici perché una delle tesi  centrali del libro, la connessione tra BR e AutOp, non ha retto alla prova dei tribunali.

Parrebbe difficile uscire da questa visione manichea per cui la verità storica degli anni di piombo risieda negli atti giudiziari, ma almeno le vittime del terrorismo, con poche eccezioni, nel corso di questi decenni hanno imparato a diffidarne e ora non sono più sole. Brillanti cervelli, scappati forse dall’Italia dei baroni delle cattedre, potranno restituire alla disciplina storica la sua dignità e fornire alle vittime un po’ di senso ai fatti tragici passati sulla loro pelle. La verità: la migliore cura per le vittime e per la storia del nostro paese.

mercoledì 9 febbraio 2011

La via mediana di Todorov e la "tentazione del bene" nei procuratori

Lasciamo la parola a chi ha titoli per riflettere sull’evoluzione delle democrazie europee. Parola che prescinde da ogni riferimento all’attualità, del caso Ruby in Italia o dello sciopero dei magistrati in Francia, anche solo per il fatto che sono state scritte 10 anni fa. Titoli che più che accademici, sono quelli di un grande pensatore umanista, democratico e illuminista: Tzvetan Todorov.

A pagina 377 di “Una vita da passatore”, un libro intervista edito in Italia da Sellerio l’anno scorso e pubblicato in Francia nel 2002, leggiamo questa domanda dell’intervistatrice, Catherine Portevin: “Arriverebbe a dire che oggi la giustizia sta prendendo il posto non solo della scuola o della storia, ma anche della politica?”
Risponde Todorov: “La parola pubblica, l’immagine che la società produce di se stessa, sta per indebolirsi sotto la pressione dell’individualismo, con la sua predilezione del mondo privato. E’ tuttavia uno dei compiti degli uomini (e delle donne) politici evitare questa rappresentazione. E’ perché essi non svolgono più questo ruolo che ci si rivolge di più verso le istanze giuridiche, come se il mondo giudiziario fosse diventato l’ultimo rifugio della parola pubblica, del mondo comune. Enunciare i valori comuni, esprimere un biasimo, un rincrescimento, formulare una sanzione può essere necessario alla vita di una comunità, ma per fare questo non c’è bisogno di passare dai tribunali. Questo è il ruolo della scuola, dei media, delle personalità di prestigio, a un altro livello, dei diversi comitati di saggi. Il capo dello Stato può giocare il suo ruolo a seconda delle circostanze, nella misura in cui non incarna solo una figura politica ma anche l’autorità morale. Ricordiamoci di Willy Brandt in ginocchio davanti al ghetto di Varsavia: ecco un gesto che si confà a un uomo politico. Il ruolo di queste persone, di queste istituzioni non è quello di produrre conoscenza ma di dare un riconoscimento a coloro che lo meritano”.
(…) “Il posto lasciato vuoto dai politici viene surrettiziamente occupato da coloro che sono soliti impartire lezioni, da procuratori di corto respiro, fieri di denunziare il male degli altri e di indicare a tutti la retta via. E’ un aspetto delle democrazie moderne cui bisognerebbe stare attenti, questa tendenza a raddrizzare i torti altrui, a esigere che tutti si conformino al bene. E’ quanto ho chiamato la «tentazione del bene»”.

Per chi fosse interessato ad approfondire, si segnala dello stesso autore “Memoria del male, tentazione del bene – Inchiesta su un secolo tragico” (Garzanti 2004-2009)
Aggiungiamo poche frasi nelle vicinanze della stessa pagina.
“Più in generale, il tribunale conosce solo due colori: bianco e nero, sì-no, colpevole innocente. La realtà umana ne conosce svariati – l’ampia zona grigia di Primo Levi – e gli storici sono meglio messi per restituire questa complessità. (…) I deputati non sono qualificati a scrivere la storia, non più dei giudici. (…) Oggi abbiamo bisogno più di verità che di giustizia. (…) La Francia ha bisogno di guardare in faccia il proprio passato, senza nascondersi nulla.”
Per finire, la conclusione del capitolo:
“Sognare una giustizia assoluta mi sembra non solo vano ma nefasto: l’esistenza umana, lo abbiamo visto, è un giardino imperfetto. Le derive moralistiche sono nocive, ma una vita privata di ogni idea di giustizia, non è più una vita umana. Non dobbiamo arrosire nel seguire questa via mediana".
C'è qualcosa da aggiungere?

giovedì 3 febbraio 2011

Premessa ad una ricerca sul terrorismo internazionale e le sue vittime


Nei paesi democratici, la possibilità di accedere al passato senza sottoporsi a un controllo centralizzato è una delle libertà più inalienabili, accanto alla libertà di pensare e di esprimersi. Essa è particolarmente utile per quanto concerne le pagine nere nel passato di questi paesi”.*


Il punto è che, come per ogni libertà o diritto, lo statuto della memoria nelle società democratiche non è definitivamente assicurato, altrimenti non si spiegherebbe perché la memoria delle vittime del terrorismo degli anni di piombo, sia stata assai parziale fino all’inizio dello scorso decennio, cioè a distanza di decenni dai fatti.

In Italia è capitato che il primo passo del lavoro storico, cioè la sistemazione dei fatti, abbia avuto avvio quando Aiviter nel 2001 ha iniziato a redarre delle schede di memoria di tutti le singole vittime. Quando cioè attraverso il sito internet dell’associazione, il suo presidente, Maurizio Puddu, mi chiese di procedere, attingendo all’archivio, ad un lavoro analogo a quel “Memoriale dei deportati ebrei” redatto in Francia da Serge Klarsfedl. Documentare con semplicità i nomi, i luoghi, le date di nascita, i fatti e, quando possibile, un minimo di biografia. Si trattava innanzitutto di restituire dignità a tutte le vittime. Citando ancora Todorov, possiamo dire che quel lavoro rilanciava il concetto che “la vita ha perso contro la morte, ma la memoria vince nella sua lotta contro il nulla”.

La memoria si è quindi imposta a fatica e tardivamente: solo nello scorso decenni quando al lavoro on-line di Aiviter sono seguiti i lavori di Fasanella e di Arditi e poi, via via, altri e soprattutto i libri scritti dai figli delle vittime. Fino al passo decisivo della legge che ha introdotto il “Giorno della memoria” delle vittime del terrorismo e delle stragi, celebrato la prima volta al Quirinale il 9 maggio del 2007.

L’anno successivo, nella stessa occasione, è stato pubblicato dalla Presidenza della Repubblica “Per le vittime del terrorismo nell’Italia repubblicana” un volume che ha di fatto finito di completare la sistemazione dei fatti da noi iniziata sette anni prima, almeno per tutte le vittime del terrorismo interno: rosse, nero e stragista.

Certamente resta ancoro un lavoro oneroso da completare verso i feriti: i gambizzati. Quella pratica che il figlio del Vicedirettore de La Stampa ucciso dalla BR, Carlo Casalegno, definisce “peggio della tortura”, perché dura tutta la vita.

Ma ce ne è un altro da compiere, un mosaico da comporre, e che si è fatto urgente dopo che questo secolo si è aperto ponendo al centro lo stesso fenomeno ad un livello planetario: quello delle vittime del terrorismo internazionale.

Anche in questo caso fatti e nomi rischiano di scivolare nel dimenticatoio, anche perché la dimensione internazionale non è iniziata dopo l’11 settembre 2001, C’è già un segmento di terrorismo internazionale che, viaggiando parallelo agli anni di piombo, è rimasto sottotraccia, sovrastato del clamore e la gravità di quello interno. Si tratta del terrorismo palestinese e quello ‘di stato’ libico. Ma non solo. Se ci spostiamo dal territorio italiano abbiamo vittime italiane o di origine italiana in molte aree. Il Sud-america per esempio.

Possiamo fare degli esempi di questi fatti e delle loro vittime, tra quelli fini ad oggi individuati, o meglio ritrovati, ma quello che è urgente a sostegno di questa ricerca, è l’aiuto ad individuare i fatti da parte di tutti coloro che ne conservano memoria.

Debbo, infine, precisare un aspetto metodologico, per evitare equivoci. Affrontare la storia partendo dalle vittime, dando loro voce attraverso i loro famigliari o i superstiti, non significa che debbano loro dare un senso alla storia, cioè, come diceva Primo Levi: non spetta alle ex vittime cercare di capire i loro assassini. E’ però la testimonianza, con il suo discorso su fatti e persone, che fornisce un arricchimento allo storico, che costruisce l’ausilio indispensabile alla sistemazione degli eventi occorsi, che fa riemergere la dignità dovuta delle vittime.
Riportare queste vittime dal passato al nostro presente, significa riaprire ferite dolorose, ma è solo da queste che può avviarsi una guarigione, cioè avere la possibilità per noi tutti di capire meglio quanto è accaduto, affinché, se non prevenire che riaccada, almeno che sia acclarato quello che è successo.


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*Tzvetan Todorov scrive queste parole pensando al colonialismo francese in Algeria, ma le pagine “nere” della storia italiana, relativa agli anni di piombo, non è che non siano state studiate, ma hanno sofferto della diagnosi descritta da Ferraioli: “Nella storia dell'Italia unita non si era mai verificata una situazione simile, mai la magistratura e la classe politica si erano trasformate in modo così sistematico in storici, al punto da indurre in alcuni l'ipotesi che il loro lavoro di indagine, raccolta e ricostruzione dei fatti, fosse così ampio, organico e correlato da sostituire tutte le altre fonti. Dal carattere tipico di fonte integrativa questa attività della magistratura e della classe politica per l'imponenza probatoria, per la qualità dell'oggetto trattato, per la sistematicità e il lungo arco cronologico affrontato ha assunto i connotati di fonte sostitutiva di tutte le altre, imponendosi come fonte unica per la storia del potere politico nell'Italia repubblicana, per lo meno a partire dagli anni Sessanta".