sabato 22 novembre 2014

Intervento workshop finale del progetto Counternarrative for Counterterrorism C4C





(saluti e ringraziamenti)

Partirei con una suggestione. Se l'esplosione di testimonianze delle vittime del terrorismo italiane, con i libri e documentari di o su di loro, ha coinciso con un periodo che ha visto approdare al Parlamento italiano la legge sui dritti delle vittime (2004) e l'istituzione della Giornata delle memoria a loro dedicata (2007), si potrebbe dire che progetti come questo, o quello di cui si occupa Stéphane Lacombe, entrambi promossi dalle associazioni italiana e francese, sono il frutto dell'istituzione di analoga giornata dedicata alle vittime del terrorismo varata dal Parlamento europeo un mese dopo la strage alla stazione di Atocha a Madrid del 2004 che ha aperto la strada ai successivi bandi della Commissione, in particolare della DG Home: quella che ha finanziato C4C.

La periodizzazione delle testimonianze e del loro ruolo potrebbe però avere anche una lettura diversa. Potrebbe infatti riecheggiare quanto occorso ai testimoni della Shoah. Seguendo il tracciato delineato da Annette Wieviorka, in L'età del testimone, da una prima fase nell'immediatezza dei fatti, peraltro con un impatto assai limitato sul grande pubblico e sugli studi storici, è seguita l'esplosione a seguito del processo Eichmann a Gerusalemme nel 1961 quando i testimoni cominciano ad acquisire uno status sociale preciso che è stato poi a sua volta stabilizzato ed alimentato da televisione e cinema, fino a giungere alla Visual History Foundation di Spielberg con il suo immenso archivio audiovisivo di interviste, ma passando da un altro processo storico, quello Papon in Francia del 1997, nel quale avviene il passaggio di testimone alla generazione successiva, quella delle figlie e dei figli.

Se osserviamo le vittime del terrorismo italiano possiamo notare molte analogie: un quantità scarsa di testimonianza nell'immediatezza dei fatti, quelle dirette di Sossi e di Lenci, la raccolta del giornalista Gigi Moncalvo, gli atti del convegno Aiviter cui seguirà, a fine anni '80, quello di Gemma Calabresi.

La disattenzione verso tali testimonianze è provata non solo dalla scarsissima circolazione di tali testi, ma anche da un fatto che abbiamo acclarato pochi giorni fa. Nel 1989 quando la RAI trasmette un dossier giornalistico di successo, e diventato poi libro, La notte della Repubblica di Sergio Zavoli, non appare nessuna testimonianza delle vittime, seppure la redazione della trasmissione ne avesse raccolte alcune in audio. Questa la scoperta recente in occasione dell'intervista a Vittorio Musso, ferito da Prima Linea nell'attacco alla SAA di Torino nel 1979, condotta da una ricercatrice danese.

Anche in questo caso abbiamo, come per i testi della Shoa, un decennio in cui non appaiono più testimonianze, gli anni '90. In quel decennio si affermano come unici testimoni degli anni di piombo esclusivamente gli ex terroristi, con la sola particolarità dell'uscita del film "La seconda volta" di Calopresti in cui per la prima volta il personaggio principale è una vittima del terrorismo (ispirata a Lenci e a Musso).

Le vittime riappaiono pubblicamente ad inizio anni 2000, dopo gli attentati dell'11 settembre e la comparsa delle nuove BR che tornano ad uccidere in Italia.

Lo stesso Sergio Zavoli con Olga D'Antona, inaugura la nuova stagione nel 2004, cui daranno grande impulso i documentari trasmessi da Giovanni Minoli su RAI Educational e Storia. Dal 2006 in avanti si susseguono i libri di Torregiani, la raccolta di interviste dei giornalisti Fasanella, Arditti e Telese. E poi i libri di figlie e figli: Calabresi, Tobagi e Casalegno, fino a quelli più recenti di Giralucci, Coco e Tarantelli, solo per citarne alcuni. Ai quali si aggiungono documentari, mostre e fiction Tv, come quella trasmessa a gennaio scorso dalla RAI, Gli anni spezzati.

A metà del decennio scorso, appaiono anche due riflessioni originali, da ricercatori provenienti dall'area di Lotta Continua, che per la prima volta si distaccano con coraggio dalla lettura benevola e giustificazionista per quanto riguarda fatti di cui sono stati soggetti nella loro militanza politica giovanile. Oltre alla generale denuncia della carenza di riflessione sull’uso della violenza in politica contro lo Stato e l’avversario politico, che ha caratterizzato le loro storie e quelle di quasi tutte le culture e sub-culture politiche italiane, in particolare sulle vittime di tale violenza i due autori fanno affermazioni che voglio integralmente riportare.

Luigi Manconi, sociologo e oggi presidente della Commissione parlamentare straordinaria sui diritti umani, nel suo saggio del 2008 Terroristi italiani. Le Brigate rosse e la guerra totale 1970-2008, proponendo un progetto di commissione parlamentare di studio e di alto livello che raccolga le storie dei vari attori di quelle vicende, in seno al quale dare alle vittime un ruolo pubblico "altissimo e determinante", scrive:

"Le vittime e i familiari delle vittime, dunque, come protagonisti di quell'opera di ricostruzione storico-politica, di cui rappresenterebbero l'elemento cruciale e ineludibile, il "fattore umano" non cancellabile. Da ciò potrebbe discendere una intensa funzione pedagogica, un forte ruolo testimoniale, un denso significato di ammonimento: e la continuità non dimettibile di un messaggio della memoria".

Anna Bravo, docente di Storia sociale all'Università di Torino e studiosa di Primo Levi, pochi anni prima, in una intervista alla rivista Lo Straniero, sottolinea:

"Quello che mi indigna è il fascino che i reduci del terrorismo sembrano esercitare sui media. Su di loro si scrivono libri, si fanno film, si pubblicano loro interviste. E sono per lo più povere cose, parole di aspiranti caporali. Sulle vittime invece, quasi silenzio. Eppure sono molto più “interessanti” Guido Rossa, Bachelet, Casalegno che non i loro assassini – dico interessanti proprio nel senso di narrativamente ricchi, non nel senso di umanamente nobili. Credo che in nessun altro periodo si sia dato tanto spazio ai “cattivi” e così poco alle loro vittime."

Il carattere pedagogico da una parte e la qualità narrativa dall'altra, vengo per la prima riconosciuti.

Nel frattempo però il ruolo delle testimonianze viene problematizzato in forma anche assai critica. E' la stessa storica francese Annette Wieviorka che pone i problema del contrasto tra la storia scritta dalle vittime/testimoni e quella scritta dagli storici, per quanto riguarda la Shoa. Certamente le testimonianze non sono storicamente precise e attendibili, ma come precisa Tzvetan Todorov, nella prefazione a I sommersi e i salvati:

"La semplice memoria del male non è sufficiente a prevenirne il ritorno; bisogna che il richiamo del male sia sempre accompagnato da una interpretazione e da istruzioni per l'uso; ed è proprio quello che ci offre Levi nei Sommersi e i salvati. Levi non si accontenta di rievocare gli orrori del passato, ma si interroga - a lungo, con pazienza - sui significati che tali orrori hanno oggi per noi".

Il valore della testimonianza ha quindi un peso pedagogico, non tanto dal punto di vista storico, quanto piuttosto come lettura del passato con gli occhi di oggi e di fronte alle sue sfide che ripresentano il male.

In occasione della VII Giornata Europea in ricordo delle Vittime del terrorismo, l’11 marzo 2011 a Bruxelles cercai di precisare:

"…se risulta assai sospetta la verità rivelata da un ex terrorista, anche quando questo si fosse pentito o dissociato dalla sua precedente attività omicida, pure l’attività di testimonianza delle vittime ha dei limiti verso la verità. E’ sempre Primo Levi che ci insegna che non spetta alle ex vittime di capire i propri assassini.

Il valore delle testimonianze delle vittime, in relazione alla necessità di fornire senso ai fatti, di svelarne la verità, risiede infatti nel terzo termine: il dialogo. La verità si svela cioè quando la testimonianza della vittima diventa dialogo con qualcuno che interroga o interagisce. Si tratta dunque di una pratica intersoggettiva e non referenziale, non lontana dal dialogo socratico.

Una pratica attiva di confronto che risponde, inoltre, a quel bisogno sociale diffuso che non si accontenta della giustizia, cioè di punire, ma che vuole scoprire perché il crimine è stato commesso e da quali cause sia stato generato per cercare di prevenirne altri."


Il ruolo educativo di tali testimonianze, che è stato al centro del progetto C4C, non è quindi né astratta ricerca di pacificazione, e neppure fissa commemorazione di fatti tragici, ma dinamico e concreto disvelamento di verità relative ma certamente indispensabili affinché la società civile, e in particolare i suoi giovani, possa condividere il senso delle ferite che il terrorismo ha inferto al suo corpo, aiutandola ad interpretare i fatti e le sfide dell'attualità, di cui discuteremo domani.

Al dialogo con gli studenti, abbiamo aggiunto anche "spunti interpretativi ed istruzioni per l'uso", per usare i termini di Tzvetan Todorov, che costituiscono la parte metodologica del progetto C4C, di cui ci parleranno Luca Toselli e Mirinella Principiano.


(Ora mi limiterò a presentare il percorso logico che ha sotteso l’articolazione del progetto C4C con l’ausilio di qualche slides).

lunedì 10 novembre 2014

Le vittime di terrorismo all'Università di Brescia


LUNEDÌ 10 NOVEMBRE 2014 ore 08:30 - Aula 3 - DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA UNIVERSITA' DI BRESCIA.
Nell’ambito del Corso di Criminologia (prof. Carlo Alberto Romano) si terrà un incontro, relativo al tema della Vittimologia e promosso in collaborazione con AIVITER - Associazione Italiana Vittime del Terrorismo - Gruppo scuola, dal titolo: ”Le vittime di terrorismo”.

domenica 2 novembre 2014

Il rapporto della sinistra con la violenza dagli anni di piombo a oggi

Non si può recensire il libro di Luigi Manconi del 2008, Terroristi italiani. Le Brigate rosse e la guerra totale 1970-2008, senza sottrarsi alla lettura di un altro saggio breve che viene ripreso nel secondo capitolo del libro a proprosito del mito della "perdita dell'innocenza" a seguito della Strage di Piazza Fontana. Si tratta del testo di Anna Bravo, Noi e la violenza. Trent’anni per pensarci, pubblicato pochi anni prima, nel 2004, sulla rivista di studi storici Genesis, qui reperibile.
Siamo di fronte a due testi frutto dell'elaborazione di due studiosi che hanno in comune la passata militanza in Lotta Continua, che sono quindi coinvolti soggettivamente in ciò su cui riflettono, ma che si connotano entrambi come primi seri tentativi di critica, certo anche auto-analisi e auto-critica, che rappresentano un salto netto qualitativo rispetto alla precedente cospicua mole di letteratura di e su quell'area politica: tanto quella prodotta da altri ex militanti (da Sofri a De Luca) sia dei tentativi di analisi esterni come quella di Aldo Cazzullo.


PARTE PRIMA

Entrambi gli Autori fanno i conti per la prima volta "con il rapporto irrisolto con la violenza. Non la violenza che lo stato e i gruppi neofascisti hanno rovesciato sui movimenti, non la violenza esercitata contro il corpo delle donne, ma quella di cui in vario grado portiamo una responsabilità per averla agita, tollerata, misconosciuta, giustificata – una questione che è rimasta fuori o ai margini estremi della ricerca storica e della riflessione politica." Anna Bravo si chiede perché negli anni Settanta sia mancato un pensiero originale sulla questione- violenza, perché il '68 non abbia avuto uno sbocco non violento: "sarebbe bastato guardarsi intorno per incontrare teorie e pratiche altre da quelle del marxismo ortodosso o critico, per scoprire le opere di Gandhi, Thoreau, del nostro Capitini, la disobbedienza dei radicali, e La banalità del male di Hannah Arendt, dove si racconta come in Danimarca migliaia di persone, in genere senza alcuna esperienza di clandestinità, si fossero mobilitate, nel 1943, per traghettare in Svezia i loro concittadini ebrei, facendo meglio e di più di qualsiasi organizzazione armata." Invece quello che è capito è ben descritto in questo passo: "Sarebbe futile dirottare ogni responsabilità sulla tradizione rivoluzionaria, marxista, comunista, della violenza, su quegli intellettuali maturi e autorevoli che condividevano le aspettative palingenetiche, su quell’unico partigiano che dichiarava in interventi pubblici di aver consegnato dopo la liberazione soltanto i “ferrivecchi”. Ci siamo scelti determinati maestri e compagni di strada (e per alcuni di loro i movimenti sono stati a loro volta maestri) perché ci riconoscevamo profondamente nell’ideologia della violenza riformatrice, fatta uomo nella figura del partigiano, del combattente di Spagna, del comunardo, del ribelle risorgimentale, del cittadino in armi della rivoluzione francese - un condensato di combattentismo maschile vissuto come cifra naturale della lotta.".

La tesi giustificazionista della scelta violenta della "fine dell’innocenza" dopo la strage di Piazza Fontana, con la morte di Pinelli e l'accusa agli anarchici, scrive Anna Bravo che "è una verità parziale". La teoria dell'innocenza di chi reagisce violentemente all'ingiustizia della stage "di Stato", quella del “tutti colpevoli” per l'omicidio Calabresi, che può facilmente rovesciarsi in “nessun colpevole”, sono "costruzione in cui l’idealizzazione nostalgica e il desiderio di preservare un’autoimmagine positiva sono tenuti insieme da qualche vuoto di memoria."
Posizione analoga a quella di Luigi Manconi che della Stage di Piazza Fontana parla in termini di fattore di "accelerazione", di "precipitazione" verso l'uso della violenza: un "mito delle origini" quello dell'innocenza che nasconde in vero un'ovvietà: che negli anni Settanta sia mancato "Un pensiero originale sulla questione-violenza", scrive Manconi citando la Bravo.

Il discorso è sviluppato da Manconi nei capitoli successivi, come quello sul ruolo del mito resistenziale e successivo, nei quali al fine di marcare l'ipotesi del suo lavoro di una continuità tra primo e secondo terrorismo (cioè tra le varie fasi di evoluzione della Br tra il 1970 al 2007), giunge a denunciare precisamente il "punto dolente": l'interdizione all'uso delle violenza offensiva e rivoluzionaria non è solo mancato negli anni Settanta, ma "nemmeno successivamente è stato elaborato: lo si è dato per implicito e scontato (all'interno del PCI, ad esempio); è stato affrontato negli anni più recenti da Rifondazione comunista; e, per quanto riguarda i "nuovi movimenti", soltanto in alcuni (penso a Lilliput) la problematica risulta centrale e qualificante. In altre parole, si può dire che non esista nelle culture cui fanno riferimenti i movimenti sociali, che qui considero, un'adeguata interdizione culturale e morale nei confronti del ricorso all'illegalità e allo stesso esercizio della violenza. Non esiste, direi, una interdizione assoluta, un veto inappellabile, un vero e proprio tabù."
La legittimazione morale del ricorso alla "violenza giusta" è invece stata alimentata da "alcune importanti tradizioni politiche e culturali (da quella di ascendenza marxista a quella di ascendenza cattolica). Anna Bravo vi aggiunge una ascendenza antropologica "maschilista", cui il mondo femminista negli anni Settanta aveva cercato di porre qualche distinguo più che argine.

Certamente ci sono ancora dei limiti in queste due, come nelle altre analisi degli ex militanti, che lo stesso Manconi denuncia: costituiscono "un sistema complesso di "spiegazioni e "giustificazioni": e combinano variamente continuità e discontinuità, memoria di ieri e percezione di oggi". Ai quale si aggiungono i vuoti di memoria, di cui parla la Bravo.

Credo che, al di là del loro oggettivo valore, in queste due (auto) analisi manchi anche solo un accenno ad una ipotesi direi assolutamente legittima: se non fosse scoppiato il caso Sofri-Calabresi, con l'auto denuncia di Leonardo Marino nel 1987, avremmo avuto lo sviluppo di queste riflessione in seno a LC?
Inoltre, l'alto livello di coesione di gruppo di Lotta Continua, anche dopo la lettura di questi due testi, non toglie l'impressione di un'aura di omertà persistente che aleggia ancora intorno ai fatti di cui LC fu responsabile e che fatica ancora a distinguerne e denunciarne responsabilità individuali. Per dirla con Primo Levi, manca loro un certa autoconsapevolezza di essere esponenti di una "zona grigia" di sopravvissuti come “peggiori”.
E poi sempre assai sorprendente quando si parla di mancata cultura della non violenza, che due intellettuali, ancora riescano ad omettere la figura di Albert Camus da quel panorama di alternativa possibile in cui Anna Brava trova il posto per Rudi Dutschke, Jan Palach, Gandhi, Thoreau, Capitini, Hanna Arendt e Simone Weil. (Camus, dunque, questo sconosciuto al sessantotto, cui anche Goffredo Fofi e Paolo Flores D'arcais non sono riusciti evidentemente a trarre alcun beneficio in termini di riflessione sull'uso delle violenza politica. L'uomo in rivolta, gli articoli sulla stampa relativi alla terrorismo algerino, paiono ancora intellegibili agli ex giovani dei movimenti)

PARTE SECONDA

Il contributo dei due testi riserva però anche altri spunti positivi ed interessanti: quelli relativi alle vittime del terrorismo e delle violenza politica.

"Anche se non si può separare il terrorismo dal clima di quegli anni, mi pare che alla parola dei suoi esponenti, donne e uomini, vada dato uno spazio a sé; sapere di aver ucciso è una condizione fronteggiabile solo con un salto di coscienza che parta dal dolore per l’irreparabile che si è commesso. Ne ho trovate poche tracce nei loro scritti e interviste, dove la coscienza della responsabilità è soffocata dall’enfasi sulla dimensione soggettiva e sulla nuova persona che ormai si è, dall’insistenza sul contesto di allora e sugli errori di analisi politica, più che sui crimini che ne sono derivati. Le vittime stanno fuori o sullo sfondo…", scrive Anna Bravo.
Luigi Manconi va molto oltre.
Già in premessa scrive: "trattare del terrorismo senza considerare il punto di vista delle vittime è operazione non solo parziale ma, probabilmente, fallace." Il suo libro vuole infatti trattare il fenomeno terrorismo che "va analizzato non solo dalla parte dei suoi attori precedente, attuali e potenziali, ma - contemporaneamente - dalla parte del sistema politico e delle vita sociale e dalla parte delle vittime."
Nel definire la stagione del terrorismo rosso, "una ferita che - lungi dal rimarginarsi - ha rischiato piuttosto di incancrenirsi (..) per la scia lunga e dolente di sofferenze", l'Autore precisa che "Appartengono a quella scia, innanzitutto, la schiera delle vittime e dei familiari delle vittime; e vi appartengono anche, su un altro piano, le vite spezzate degli "ex combattenti"." Sottolineo la precisazione, "su un altro livello", visto che frange di ex terroristi tendono a considerare vittime solo loro stessi ancora oggi.
L'Autore precisa che utilizza il termine "combattenti", non perché in Italia ci sia stata una guerra o una rivoluzione, ma quella che definisce "una guerra civile simulata", per Manconi sinonimo di una lacerazione profonda del "patto sociale", che in quanto fatto non esclusivamente criminale, avrebbe richiesto da parte delle istituzioni dello Stato, pur senza fornire ai brigasti alcun riconoscimento politico sul piano giuridico, almeno una capacità di risposta che non si limitasse alla repressione giudiziaria. Una risposta dello Stato che fornisse loro un valore politico e sociale per agevolare una relazione con i terroristi in grado di essere più flessibile in occasione come quella del rapimento Moro, e soprattutto di affrontare l'uscita dagli anni di piombo con "una grande opera di "riconciliazione" che, nel nostro paese, invece non fu né realizzata né tentata.(…) A metà degli anni Ottanta (…) lo scampato pericolo e il conseguente sollievo determinano rimozione. Si crea un autentico buco nero, nel quale precipita un'intera fase storica, con i sui lutti e con le sue domande senza risposta." Il retaggio di quella fase è descritto dall'Autore, come "pesante, "resistente", in cui il dolore dei familiari delle vittime resta inchiodato dallo scarto tra l'aver subito un lutto "per ideologia" e la misura della pena inflitta al responsabile. Le vittime e i loro familiari sono quindi "immobilizzati in quel dolore, al quale non è stato dato alcun rilievo pubblico - alcuna funzione di testimonianza civile e di monito morale - se non nel momento delle esequie." Lasciandole nella "solitudine privata e la smemoratezza pubblica".
Il caso del libro di Mario Calabresi, Spingendo la notte più in là, è considerato dall'Autore un caso raro di riconciliazione, "che opera positivamente per tutelare la memoria dei propri cari", al contrario dello Stato che non ha voluto "voltare pagina", ha preferito "il ritorno ad una normalità di superficie"."E' successo così che, periodicamente, una ferita non ancora rimarginata abbia ripreso a sanguinare" e ogni volta "le passioni sembrano avere la meglio sui tentativi di ricostruzione storica, si analisi sociologica, di mediazione e di ricomposizione politica". Una vera e propria reticenza "verso una discussione aperta", è la cifra che ha contraddistinto l'atteggiamento verso la questione del terrorismo: "tema critico e nervo scoperto di alcune tradizioni politiche e culturali, o di loro importanti componenti".
Conclude Manconi: "Insomma, la mancata riflessione ed elaborazione a proposito della "violenza rivoluzionaria" e della "violenza reazionaria" si sono alimentate, e continuano ad alimentarsi reciprocamente" privando il paese di una vera "pacificazione, che da una parte restituisca i "prigionieri"e dall'altra, "ancor prima", riconosca alle vittime il ruolo politico, morale, istituzionale e simbolico loro dovuto. Quello delle vittime, Manconi è assai chiaro, è stata una questione di "mancato spazio pubblico", cui solo nel 2004 è apparsa una prima controtendenza costituita dall'approvazione della legge n.206, precisa l'Autore. Le vittime "Nella memoria di quella "tragedia nazionale" sono - avrebbero dovuto essere, potrebbero ancora essere - anche altro (che semplice "parte lesa"): ovvero i soggetti che, in quanto più crudelmente feriti, più sarebbero in grado di contribuire a sanare quella stessa ferita".
L'Autore è consapevole che il tempo per "fare come il Sudafrica" sono scaduti, e pur con tutti i distinguo del caso italiano, giunge a proporre un "progetto verità", per perseguire una "riconciliazione" che giustamente precisa "non chiede di necessità - come esito inevitabile né, tanto meno, come condizione preliminare - la concessione del "perdono"."
Un progetto di commissione parlamentare di studio e di alto livello che raccolga le storie dei vari attori di quelle vicende, in seno al quale dare alle vittime un ruolo pubblico "altissimo e determinante".
In questo modo: "Le vittime e i familiari delle vittime, dunque, come protagonisti di quell'opera di ricostruzione storico-politica, di cui rappresenterebbero l'elemento cruciale e ineludibile, il "fattore umano" non cancellabile. Da ciò potrebbe discendere una intensa funzione pedagogica, un forte ruolo testimoniale, un denso significato di ammonimento: e la continuità non dimettibile di un messaggio della memoria".
Questa proposta per Manconi è fondamentale anche in prospettiva futura: il suo libro infatti traccia la continuità tra vecchie, nuove e nuovissime Brigate Rosse, giungendo a considerare anche possibili alleanze con il terrorismo jihadista.
Fare chiarezza sull'uso della violenza e chiudere i conti con l'uso che ne è stato fatto negli anni di piombo è quindi un prerequisito per la sua conclusione: non sarà possibile bandire completamente il terrorismo, ma "ridurlo a un ferrovecchio - che può fare assai male, come tutte le lame arrugginite - è possibile".

E' interessante aggiungere a proposito del ruolo testimoniale e pacificatore delle vittime, la nota di Anna Bravo sulla loro qualità narrativa. In una intervista dello stesso anno alla rivista Lo Staniero, sottolinea:
"Quello che mi indigna è il fascino che i reduci del terrorismo sembrano esercitare sui media. Su di loro si scrivono libri, si fanno film, si pubblicano loro interviste. E sono per lo più povere cose, parole di aspiranti caporali. Sulle vittime invece, quasi silenzio. Eppure sono molto più “interessanti” Guido Rossa, Bachelet, Casalegno che non i loro assassini – dico interessanti proprio nel senso di narrativamente ricchi, non nel senso di umanamente nobili. Credo che in nessun altro periodo si sia dato tanto spazio ai “cattivi” e così poco alle loro vittime."

Quasi un decennio separa l'oggi da questi due testi. Nel frattempo molte vittime, in particolare figli e figlie delle vittime, hanno scritto e testimoniato; la memoria pubblica delle vittime ha guadagnato spazi pubblici nelle targhe in ricordo dei caduti in molte città, e le associazioni delle vittime hanno da tempo iniziato la loro opera pedagogica nella scuola. Manconi stesso ricorda l'istituzione del Giorno delle Memoria dedicato alle vittime del terrorismo e delle stragi, nel 2008, che ogni anno il 9 maggio viene celebrato ad alto livello istituzionale. Tutto ancora con molti limiti, difficoltà e frizioni, retaggio di quanto descritto bene da Manconi. Da allora, però, il dato più importante che è emerso, come ho già avuto modo di sottolineare altrove, è quello che l'analisi dei terrorismi italiani sia diventato oggetto di ricerca delle nuove generazioni, prive di conoscenza diretta e soggettiva dei fatti. Questo distacco è la garanzia migliore per la memoria delle vittime e la qualità storiografica o sociologica degli studi in materia.

sabato 18 ottobre 2014

La zona grigia ieri e oggi (e domani)


Così conclude Primo Levi il suo articolo il giorno dopo l'uccisione di Aldo Moro sulle colonne de 'La Stampa': "(...) Se, per ipotesi assurda, (le Brigate Rosse) dovessero prevalere, non c'è dubbio che il Paese sarebbe sommerso da una marea di barbarie senza uguali nella storia moderna, forse perfino più odiosa di quella delle «non ancora dimenticate SS naziste» a cui esse osano paragonare le forze dell'ordine." (10.05.1978)

Primo Levi, nella sua opera finale, I sommersi e i salvati (1986), colloca i sopravvissuti ai Lager nazisti (e se stesso) fra i “peggiori”; Adriano Sofri, nelle due lettere del 2008 su il Foglio e il Corriere della Sera, colloca gli assassini del commissario Calabresi (e se stesso) fra i "migliori".
Questo l'abisso di tempra morale tra due figure esponenti della zona grigia, seppur di due contesti storici diversi: i Lager del terzo Reich e gli anni di piombo italiani. Contesti che però è lecito accostare perché l'autore stesso del concetto di "zona grigia" lo suggerisce alla fine dal capoverso in cui lo presenta: "La zona grigia della «protekcja» e della collaborazione nasce da radici molteplici.(…) Questo modo di agire è noto alle associazioni criminali di tutti i tempi e luoghi, è praticato da sempre dalla mafia, e tra l'altro è il solo che spieghi gli eccessi, altrimenti indecifrabili, del terrorismo italiano degli anni '70". (P. Levi, I sommersi e i salvati, pagg. 29-30)

Se gli studiosi di Levi, come Anna Bravo (1), hanno sottolineato giustamente che "Si potrebbe scrivere un libro sugli usi e gli abusi fatti del termine zona grigia", dall'altra parte, nessuno di loro mi risulta si sia preso la briga di domandarsi ed approfondire quel riferimento così esplicito al terrorismo italiano (*).

Rientra così in una tendenza, per fortuna in regresso (come segnalato in precedenti articoli), cui siamo ormai abituati da decenni: il ruolo di supplenza svolto dai giornalisti alla carenze degli studiosi sui temi caldi della stagione dei terrorismi. Infatti quest'anno è apparso il volume di Massimiliano Griner, "La zona grigia". Sottotitolo: "Intellettuali, professori, giornalisti, avvocati, magistrati, operai, Una certa Italia idealista e rivoluzionaria", per i tipi di Chiarelettere.

Il libro si compone di una carrellata di storie e personaggi che hanno aderito, fiancheggiato, simpatizzato o accettato il terrorismo eversivo di sinistra; che con le loro simpatie, silenzi, complicità indirette o scoperte, hanno reso possibile l'ampiezza, l'intensità e la durata del terrorismo del caso italiano.
Scrive l'autore che «La molla principale alla realizzazione di questo libro è stata l’indignazione verso un ambiente spesso arrogante e protetto che, diversamente da alcuni ex brigatisti, non ha fatto un solo passo indietro; non una riflessione sul proprio operato; non un ripensamento o un’ammissione di responsabilità per le tante sofferenze causate alle vittime e alle loro famiglie».

In vero qualche riflessione c'è stata anche in quell'area, e l'autore forse avrebbe fatto bene a sottolineare meglio che quanto ha riportato è una selezione parziale di quanto emerso solo pubblicamente nel corso dei decenni. Inoltre, il pur ampio quadro di tipologie è tratteggiato in modo talvolta insufficiente per valutare il livello di coinvolgimento nel fenomeno terrorista del singolo esponente. Infine, tra gli intellettuali, sono inclusi solamente i "clerici" laici.

Salvo rari casi con vasta letteratura, come quello Sofri-Calbresi, di fronte a questa area è quindi importante approfondire sia quantitativamente che qualitativamente, cercando di esimersi da giudizi netti ed affrettati. Come insegna sempre Primo Levi, è bene sfuggire sia dal sentimentalismo che tutto assolve, sia dal moralismo astratto che vuole tosto giudicare.

Siamo infatti di fronte ad un crinale delicato, fatto di livelli e responsabilità diverse e graduate. Come scrivevo a proposito del softpower da utilizzare oggi in termini preventivi nei processi di radicalizzazione attuali, siamo qui di fronte ad una area dinamica che esprimeva livelli diversi di coinvolgimento con il fenomeno. Un'area, quella grigia degli anni di piombo, che un programma USA (The Minerva Initiative) poi bloccato da carenze di fondi federali, voleva indagare scientificamente per trarre indicazioni utili alle sfide attuali.
Un peccato, perché una riflessione di quell'area oggi avrebbe potuto rimediare la sua propria tardività con una qualche utilità per il futuro.

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(*) In vero è la stessa Anna Bravo l'unico caso di un'analisi critica, seppur soggettiva, dall'interno, e probabilmente in parte inconsapevole, della zona grigia intorno al terrorismo degli anni '70: non a caso una studiosa della Shoa e di Primo Levi. 10 anni fa suscitò aspre polemiche la sua intervista a la Repubblica relativa al suo saggio “Noi e la violenza. Trent’anni per pensarci” , pubblicato sul numero III/1 (2004) della rivista “Genesis” (per informazioni: www.societadellestoriche.it dove è reperibile), nel quale studia i rapporti del  femminismo e di tutta la nuova sinistra degli anni settanta, a cominciare da Lotta continua, il gruppo di cui ha fatto parte, con le varie forme di violenza (materiale, simbolica, ideologica). E' la prima volta che viene affrontato il tema delle violenza politica senza infingimenti e giustificazionismi, da perte di chi era stata parte del movimento.
Tre anni dopo, Luigi Manconi, anche lui ex militante di LC, riprenderà sostanzialemnte le sue tesi, sviluppando una ampia analisi sociologica sul terrorismo rosso in Italia tra il 1970 e il 2008. "Terroristi italiani" (RIzzoli). Si veda la recensione di entrambi i testi qui

Softpower nella prevenzione del terrorismo: il divario europeo

Nei paesi dell’Europa centrale e del nord la prevenzione del terrorismo non è prassi esclusiva dagli organi di polizia ed intelligence, ma si sono dotati negli ultimi anni di strumenti e progetti che agiscono sul campo coinvolgendo società civile, ONG, opinion maker politici e religiosi con partnership pubblico /privato per attuare interventi nelle comunità a rischio, nelle prigioni, nelle famiglie, nelle scuole.
Mentre nel nostro paese, e più in generale nei paesi latini, il significato di prevenzione è quello di reprimere l’atto terroristico in una delle fasi che precedono la sua attuazione concreta di attentato, nei suddetti paesi si investono risorse e intelligenze cercando di intervenire sulle radici del fenomeno, cioè nelle fasi (e nei luoghi) del processo di radicalizzazione precedenti a quelle finali in cui la violenta diventa pratica concreta.
Pur avendo la letteratura scientifica diversi modelli descrittivi del processo di radicalizzazione, il punto è quello di utilizzare il softpower per prevenire che i soggetti coinvolti giungano a concluderlo rendendosi terroristi o estremisti violenti. In Italia non c’è praticamente traduzione alcuna dei lavori di ricerca sul processo di radicalizzazione. Nel dibattito italiano, il terrorismo è stato analizzato e spiegato sotto moltissimi approcci (sociale, culturale, ideologico, storico politico, psicologico, etc), ma mai come un percorso che investe un individuo in una serie di fasi, oggettivamente descrivibili. Sono quelle che riecheggiano le figure note di ‘simpatizzane’ e ‘fiancheggiatore’, ma la "zona grigia” l’abbiamo sempre considerata un configurazione statica, quando invece, gli studi recenti internazionali, stanno cercando di descriverla dinamicamente, come un progressivo processo, dal quale però, con opportuni interventi, si può provare a far retrocede gli individui coinvolti.
Si possono quindi attuare sia interventi mirati sui soggetti, sia su gruppi nei luoghi e nelle comunità a rischio (dalle prigioni ai centri raccolta di immigrati). Si possono fare scelte politiche consapevoli dei rischi di accentuare o meno la radicalizzazione in contesti di movimenti antagonisti, come il NOTAV (si veda Il processo di radicalizzazione violenta del movimento No Tav). Si possono disporre interventi di formazione per sensibilizzare il personale delle forze dell’ordine e quello civile, militare e del terzo settore, quello che per esempio gestisce le operazioni legate al flusso migratorio in Italia (si veda Dopo il caso Delnievo, la prevenzione verso il rientro dei combattenti in Siria). Si possono investire risorse per agevolare il dialogo inter-culturale e inter-religioso nelle città e nei quartieri multietnici. Si possono attuare programmi di intervento nelle scuole e nelle famiglie. Prima di tutto però occorre la consapevolezza culturale di questo approccio alla prevenzione e poi la volontà politica.
Il 9 settembre 2011, Cecilia Malmström, Commissaria per gli Affari interni, inaugurò a Bruxelles “la rete di sensibilizzazione al problema della radicalizzazione, per sostenere gli Stati membri nel loro impegno volto a migliorare la sensibilizzazione al problema e a trovare modi per contrastare l'ideologia e la propaganda degli estremisti”. La RAN (Radicalisation Awareness Network) ha lo scopo di individuare le buone pratiche e promuovere lo scambio di informazioni ed esperienze, tra i soggetti che a vario titolo si occupano professionalmente dei diversi aspetti della radicalizzazione violenta, cercando di affrontare il problema della radicalizzazione prima che questa si trasformi in estremismo violento.
In questi tre anni ho diretto uno dei gruppi di lavoro di tale rete europea (RAN VVT), senza che il mio Stato membro, cioè l’Italia, a livello del suo Ministero degli Interni, abbia mai dato un segno di interesse verso l’attività e i lavori svolti in questo contesto. Due sono state le conferenze “high level” organizzate dalla Commissione Europea, con RAN e Stati membri: nel primo caso la ministra Cancellieri si limitò ad augurami buon lavoro; nel secondo caso, nel giugno scorso, alla vigilia della presidenza di turno italiana dell’Unione Europea, il sottosegretario agli Interni italiano che doveva concludere i lavori non si è fatto né vedere né sostituire.
Del resto, se andiamo a leggere uno dei risultati della RAN, cioè la raccolta “Collection of approaches and practices to prevent and counter radicalisation”, possiamo notare l’impronta geopolitica descritta all’inizio: Regno Unito e paesi centro-nord europei dominano nella progettualità del softpower contro la radicalizzazione.
Eppure non mancano buone prassi anche in Italia, ma si tratta di casi isolati che attendono di essere valorizzati e messi in rete …quando consapevolezza e volontà politica sopraggiungeranno. Sperando che ciò non accada solo dopo il versamento di sangue italiano sul suolo italiano.


lunedì 13 ottobre 2014

L'uscita dal terrorismo italiano e la cultura cattolica

Il saggio della ricercatrice fiorentina Monica Galfré, La guerra è finita. L'italia e l'uscita dal terrorismo 1980-1987, Laterza, 2014, ricostruisce il lungo percorso con il quale l’Italia si è lasciata alle spalle la terribile stagione di sangue del terrorismo.
Il sistema carcerario, e, soprattutto, la cosiddetta legislazione premiale, sono in vero stati a lungo studiati sia in Italia che all'estero, in quanto il caso Italiano è considerato un importante case-study di exit strategy dal terrorismo. Ma il tormentato cammino verso la normalizzazione è qui osservato attraverso il dibattito tra i vari attori dell'epoca, e quanto viene maggiormente approfondito è il fenomeno delle aree omogenee e della dissociazione.
In particolare le fonti più interessanti, che si aggiungono a quelle tradizionali costitute da giornali, testimonianze, atti parlamentari e studi pregressi, sono quelle di alcuni archivi. Della decina elencata in apertura del saggio, segnalo soprattutto quelli di Ernesto Balducci e di Mario Gozzini. Attori, l'uno sociale, l'altro politico, afferenti entrambi al mondo cattolico interessato al processo di pacificazione e alla salvezza, anche politica, dei militanti: quelle migliaia di giovani che attraversata l'esperienza eversiva stavano pagando in carcere le loro responsabilità più o meno gravi, in condizione di regime emergenziale.
Le carenze e le incertezze della politica e il conseguente ruolo supplente giocato dalla magistratura e dalla Chiesa con le sue associazioni cattoliche (dalla Caritas al Gruppo Abele, dalla Corsia dei Servi alle Edizioni Cultura della Pace), sono i tratti più interessanti del testo della Galfré. Grazie ai due archivi sopra citati però, il tratto con maggiore originalità è proprio la dinamica interna al mondo cattolico di fronte alla gestione degli ex terroristi nel post emergenza.
Se infatti lo scontro politica-magistratura, seppur grave, è  riconducibile in seno a dinamiche ed equilibri tra istituzioni dello Stato, il dibattito interno al mondo cattolico esprime un interessante divisione tra cattolici delle istituzioni (Gozzini) e cattolici dei movimenti (Balducci). Una divisione tra chi ha senso dello Stato e chi si pone fuori e contro di esso: tra un cattolico liberale e un cattolico postconciliare con simpatie verso teologie della liberazione. Quella di Balcucci è infatti una visione dello Stato che coltiva la visione cospiratrice dei mali del paese traendo linfa dalla Commissione parlamenta presieduta da Tina Anselmi sulla P2; che giustifica lo scontro contro lo Stato in nome, per usare la dicotomia di Max Weber, dell'etica della convinzione; e che giunge, diciamo biblicamente, ad interessarsi esclusivamente di Caino.

Già e Abele, ovvero le vittime del terrorismo?
Oltre alle preoccupazioni espresse da Gozzini, vero ponte tra mondo cattolico e Parlamento, ed espressione dell'etica della responsabilità che accusò Balducci di "giustificare il terrorismo come "apologia del"tirannicidio sacro""; nell'introduzione l'Autrice si premura di scrivere che: "quanto al processo di riconciliazione, sono oggi in molti a rilevare - anche al di là delle polemiche pubbliche - la marginalità del ruolo attribuito alle vittime, a riprova di una mancata assunzione di responsabilità da parte delle istituzione." Il riferimento in nota è al testo di Luigi Manconi, Terroristi italiani, e soprattutto, per il carattere scientifico, a quello dei professori inglesi Anna Cento Bull e Philip Cooke di Ending Terrorism in Italy (qui recensito).

Forse questo ultimo testo, sarebbe stato utile che fosse stato più ponderato da parte dell'Autrice, per almeno un paio di motivi.
Il primo per una rilevante chiarezza concettuale. L'Autrice infatti usa alternativamente ed indifferentemente i temi di 'pacificazione' e di 'riconciliazione'. Mentre il primo soffre solo di genericità, il secondo è inesatto. Il testo inglese di Anna Cento Bull e Philip Cooke si prende cura di distinguere, fornendo ampia letteratura, tra processo di 'conciliazione' e quello di 'riconciliazione': il primo è tra due attori (stato e esecutori del crimine) il secondo è tra tre attori (Stato, esecutori del crimine e vittime del crimine).
Avendo l'Autrice convenuto che il ruolo delle vittime in quella fase storica è stato escluso, se non nella versione perdonista, quella cioè di chi ha espresso il proprio perdono ai carnefici, avrebbe dovuto sempre utilizzare il termine 'conciliazione'. Il punto è che forse l'arroganza e la misericordia cattolica si è permessa di sostituirsi ai sentimenti delle vittime, verso i quali, ad esclusione di chi perdonava, si temeva una 'pagana' volontà vendicatrice. Il quadro è ben delineato in queste righe: "le sofferenze e i diritti delle vittime apparivano sen'altro schiacciati su quegli altissimi esempi morali e cristiani di perdono concessi spontaneamente e a titolo gratuito da alcune famiglie cattoliche" (Giovanni Bachelet, Maria FIda Moro, Gabriella Tagliercio, Stella Tobagi, Publio Fiori).
Nel caso Italiano se proprio si volesse parlare di riconciliazione questa è avvenuta scambiando uno dei tre attori, nel senso che la Chiesa, ovvero la sua cultura, si è sostituita alle vittime, che sono state lasciate da tutti (Stato e Chiesa) al loro destino, che è poi stato quello di auto-organizzarsi proprio in quegli anni.

Il secondo motivo di sottovalutazione del testo inglese, Ending Terrorism in Italy, riguardo proprio questo malinteso.
L'Autrice, cita solo due casi di vittime non 'perdoniste', Carol Beebe Tarantelli e Sergio Lenci. Le cita però solo per sottolineare l'incomunicabilità tra vittime e carnefici, se il rapporto si pone su un piano dialettico e non metafisico. Perde invece l'occasione di controllare il carattere vendicativo loro attribuito dalla cultura cattolica e di segnalare che in quegli stessi anni stavano costituendosi in associazione e promuovendo propri convegni, come a Torino nel 1986.
Se avesse letto le interviste alle associazione delle vittime, contenute in Ending Terrorism in Italy, o avesse gettato un'occhiata ai loro siti web, Monica Galfrè si sarebbe accorta che la posizione delle vittime è sempre stata di assoluto rispetto dello stato di diritto: la loro sete di verità e giustizia non si è mai caricata di vendetta. Protestare contro provvedimenti di amnistia, grazia o indulto quando si è stati esclusi dal processo di pacificazione è scelta politica appena legittima, che chiede e chiedeva conto delle ambiguità dello Stato e di quelle due culture, la marxista e la cattolica, sulle quali si erano radicalizzati migliaia di giovani tra la scarsa consapevolezza, o la cinica ipocrisia, politica dei due partiti dominanti degli anni '70: il PCI e la DC.

In verità, stendere l'oblio sulla stagione del terrorismo era il fine primario, per alcuni, e secondario, per altri, rispetto al recupero degli ex terroristi. Gli unici che potevano rompere l'incantesimo dell'oblio erano le vittime. Dopo venti anni di battaglie ci sono riuscite, anche grazia alla collaborazione tra le vititme dell'eversione rossa e quelle delle stragi nere che porterà al varo della legge n. 206 del 2004 e all'introduzione di un Giorno della Memoria nel 2007.
Questo l'autrice non lo dice, preferisce chiudere il suo lavoro con un quadretto sentimentale ed idilliaco di pacificazione che ha luogo sulle lievi colline fiorentine tra circensi attività dai tratti felliniani  e ruvidi tratti dei volti di ex militanti… perché non si possono chiamare ex terroristi: è stata una guerra civile contro un Stato corrotto, con una economia in crisi, con un sistema scolastico inadeguato e uno carcerario incivile.
Se fosse stato così, chissà cosa dovremmo vedere oggi!

lunedì 8 settembre 2014

Luci ed ombre nel dibattito sul terrorismo italiano

Giovanni Mario Ceci. Il terrorismo italiano. Storia di un dibattito. Carocci editore, 2014.


Premessa
Sono in autostrada diretto all'aereoporto di Malpensa per volare in Danimarca, alla radio, su RADIO3, sento la presentazione di un libro fresco di stampa con l'intervista al suo autore che dice più o meno: "non ci crederà ma uno dei filoni di ricerca più promettenti è quello delle memorie dei familiari delle vittime del terrorismo". Attivo la mia attenzione e mi registro il nome: Giovanni Mario Ceci e il titolo del suo libro che ricostruisce e presenta il trentennale dibattito accademico sul terrorismo italiano nell'ambito delle scienze storico-sociali. Ad Aahrus mi accolgono i professori Anna Cento Bull e Lorenzo Cecchini per due giorni di lavori presso la locale università e subito racconto loro della trasmissione chiedendo se avessero notizie di questo nuova pubblicazione. Anna mi risponde di aver ricevuto una email dall'autore che le scrive di aver dato ampio risalto al suo lavoro.
In effetti nelle pagine finali del penultimo capitolo sul dibattito recente a proposito dei "tentativi di elaborare categorie concettuali in grado di fornire un'interpretazione complessiva delle stagione terroristica" si possono leggere due nomi: "Autori di queste riflessioni sono soprattutto due dei più acuti interpreti degli ultimi anni della recente storia nazionale, Anna Cento Bull e Marc Lazar".
Purtroppo però l'Autore si è perso l'ultimo lavoro di Anna Cento Bull, "Ending Terrorism in Italy", uscito presumibilmente quando aveva già terminato la sua ricerca. Un vero peccato perché avrebbe potuto chiarire meglio alcuni prospettive sul futuro degli studi che nel capitolo sulle considerazioni finali restano appena delineate e in un paio di casi, omesse.

Andando per punti, faccio seguire le mie considerazioni da questa mia particolare postazione che da una parte mi ha portato a collaborare da 15 anni con l'Associazione italiana vittime del terrorismo (Aiviter) e da tra 3 a con la rete RAN della DG Home della Commissione Europea sui temi della radicalizzazione violenta, e dall'altra mi riconduce agli studi di storia con Franco Venturi, di anni assai più lontani.

Dibattito accademico e dibattito pubblico.
Ero interdetto dal sottotitolo. Mi domandavo, ma quale dibattito? In vero, il termine dibattito è inteso dall'Autore, ed in ambito accademico, come quello 'virtuale' tra libri scientifici: l'eredità e le critiche che ogni studioso porta rispetto a quelli che lo hanno preceduto. L'Autore stesso parla di un ricco "dibattito propriamente scientifico sul terrorismo italiano", ma osserva: "tuttavia, sino ad oggi, esso è stato quasi del tutto ignorato e mai riconosciuto".
Un filone di ricerca che aggiungerei è, allora, proprio quello di analizzare il rapporto tra dibattito accademico e quello pubblico a livello di quotidiani e media. In questi ultimi trenta anni l'attenzione dei media è sempre stata essenzialmente verso quelle pubblicazioni non scientifiche: dalla "memorialistica armata" degli ex terroristi alla saggistica dietrologica incentrata su teorie del complotto. Gli inserti letterari al massimo hanno recensito romanzi sugli anni di piombo. Anche quando hanno recensito saggi non mi risulta si siano mai sviluppati dibattiti e polemiche. Vige ancora un clima ipocrita per cui tutti meritano una recensione, ma il diritto di replica e polemica, in ambito appunto accademico, è questione dalla quale direttori di giornali e responsabili culturali si tengono alla larga.
In epoca di internet le cose sono cambiate, ma solo in apparenza: qualche polemiche può nascere on line in rete, ma l'eco non approda sui media tradizionali.
Il caso più recente riguarda Alessandro Orsini, ricercatore nella nuova generazione citato dall'Autore per la sua monografia sulle BR, e che ho invitato più volte ad iniziative di Aiviter e della RAN, il quale è stato violentemente attaccato utilizzando però una sua più recente pubblicazione su Gramsci e Turati. La polemica si è scatena on line, ma quando due recensione sono apparsa, una positiva su "la Repubblica" a firma di Roberto Saviano, l'altra negativa da parte dell'esponente delle vecchia generazione sessantottina, Angelo d'Orsi, su "La Stampa", nessuna replica è seguita, se non il silenzio.

Deficit storici e studiosi embedded.
Avendo scritto tre anni e mezzo fa un post intitolato, in modo un po' avventato, "L’accademia italiana di fronte agli anni di piombo",  la lettura del libro di Giovanni Mario Ceci mi ha fornito alcune (s)consolanti conferme. Infatti nonostante il profluvio di pubblicazioni sul fenomeno terroristico italiano, l'Autore rimarca il fatto che gli storici hanno avuto nel dibatto "un ruolo decisamente minore", come del resto anche a livello internazionale. Inoltre, molti lavori tanto storici che nelle scienze sociali, sopratutto quali realizzati 'a caldo', ma in generale quelli prodotti della generazione che vissuto i fatti di cui scrive, erano talvolta viziati da "pregiudizi legati alle culture politiche di appartenenza di ciascun studioso".
Ceci, in ambito di studi internazionali, utilizza il termine di studiosi 'embedded' quando sono sospetti di essere privi di una autonomia critica in quanto legati in maniera troppo stretta agli organi di governo (di difesa o intelligence). Per l'Italia, l'Autore è più cauto, ma si potrebbe ben parlare di studiosi embedded nella galassia delle sinistra, del PCI in moltissimi casi. Le ricerche sul terrorismo, per altro quasi tutte assai valide, del Centro studi Cattaneo furono finanziate dalla Regione Emilia Romagna. Gli studiosi dell'Università di Torino, da Tranfaglia a Bravo, erano parte del sistema PCI/CGIL e i loro lavori nascevano talvolta addirittura in seno alla "Sezioni Problemi dello Stato" del PCI prima ancora che all'Università.
Traspare abbastanza chiaramente che molte di quelle analisi, in particolare quelle 'monocausali', sono reperti oggi privi di ogni utilità interpretativa in quanto frutto avvelenato di teoremi politici a priori del fenomeno, anche se per alcuni di loro, specie la versione più complottistica della teoria del "doppio Stato", conta ancora oggi una discreta fortuna tra alcuni giovani ricercatori, epigoni della tradizione marxista.

Nel panorama degli studi italiani verrebbe quasi da tracciare una geopolitica: le ricerche italiane pare abbiano 4 punti di propagazione: Torino, Bologna, Padova e Roma. Ci sono delle peculiarità nelle ricerche sorte in ciascuno di tali centri? Lo accenno solo come ulteriore suggestione per ricerche future.

Le vittima, ovvero la storia al contrario e il ruolo rimosso.
Nell'introduzione e nelle conclusioni trovo quello che avevo ascoltato alla radio: a seguito dell'istituzione della giornata delle memoria dedicata alla vittime del terrorismo (nel 2007) "Negli ultimi anni, nel discorso pubblico si è dato in effetti sempre più spazio al punto di vista delle vittime, che rapidamente è divenuto significativamente un terreno d'elezione anche per l'editoria". E di studi su memoria, contromemoria e conflitti di memoria che prendono in oggetto sia le "politiche della memoria che il ruolo delle associazioni dei familiari delle vittime", sia "quell'insieme di libri, testimonianze, analisi della generazione i cui genitori sono stati vittime di azioni terroristiche".

Non era probabilmente compito di tale saggio sottolineare un aspetto storico che riguarda le vittime, ma siccome si configura come opposto rispetto a quello storiografico occorso alle vittime della Shoa, vale la pena introdurlo come ulteriore filone di ricerca.
Come sottolineai in un mio intervento a Bruxelles nel 2011: "Tzvetan Todorov ci ricorda che la base di ogni ricerca storica è la sistemazione curata e completa dei fatti, come il “Memoriale dei deportati ebrei” redatto in Francia da Serge Klarsfedl che documenta con estrema semplicità i nomi, i luoghi, le date di nascita. Questa attività risponde innanzitutto a una prima necessità: restituire dignità a tutte le vittime."
Il paradosso risiede nel fatto che fino al 2007 non c'è stato alcun elenco delle vittime del terrorismo; e a tutt'oggi manca un elenco esaustivo dei feriti e delle vittime italiane del terrorismo internazionale.
Se il libro di Donatella delle Porta, "Cifre crudeli", riporta i dati quantitativi fino al 1982, i nomi delle vittime individuali, i feriti e quelle dei casi di terrorismo internazionale non appaiono fino al 2001 quando tale attività ha iniziato a svolgerla Aiviter, sul suo sito internet.

Il secondo paradosso è relativo al valore pedagogico della testimonianza delle vittime. L'identità europea delle generazioni postbelliche si è formata sulle testimonianze dei sopravvissuti alla Shoa, che le hanno vaccinato - seppur non nella completa totalità -  dai virus fascisti, nazionalisti e razziali, mentre in Italia solo quest'anno si è giunti ad un protocollo tra Ministero dell'Istruzione ed associazioni delle vittime, per pianificare delle attività nelle scuole sul tema del terrorismo. In questi trent'anni solo l'iniziativa dei singoli e delle associazioni ha visto alterni e disomogenei interventi nelle scuole per portare testimonianza sui fatti e su un fenomeno assente dai programmi scolastici. Una testimonianza quella delle vittime, cui sfugge tuttora ai più, il valore di prevenzione dei processi di radicalizzazione che può svolgere se articolata con metodo e programmi bene definiti.

Questa paradossi sono figli di un fattore che si comprendono dalla lettura del saggio "Ending Terrorism in Italy", di Anna Cento Bull e Philip Cooke (Routledge, 2013) - qui recensito - nel quale viene ben delineata "la "strategia dell’amnesia" portata avanti dallo Stato Italiano". Il concetto che Ceci accenna nel suo saggio solo come "il rischio di un possibile 'oblio', se non addirittura di una vera e propria rimozione collettiva del ricordi degli "anni di piombo.", riferendosi a De Luna e Grevi, nel saggio inglese di Cento Bull viene analizzato come frutto di una strategia che dalle leggi premiali su pentiti e dissociati è proseguita in quel processo di conciliazione con i terroristi svolto nell'ombra, con l'ausilio delle Chiesa e delle organizzazioni cattoliche, lasciando le vittime prive di ruoli nell'exit strategy condotta dallo Stato. Una strategia che spiega bene le "ferite aperte", di cui peraltro Ceci è ben consapevole, la povertà del lavoro storiografico sulle vittime e la mancata attribuzione di un ruolo sociale e pedagogico a queste ultime.

Le due omissioni e un vulnus.
Quello che nel saggio di Cento Bull e Cook è segnalata come una delle piste di ricerca più interessante, cioè quella sul ruolo della Chiesa e delle associazioni cattoliche nella fase di uscita dal terrorismo, è una delle omissioni del capitolo finale.
L'altra è quella relativa al terrorismo internazionale in Italia durante gli anni di piombo. A fronte di qualche ricerca su fatti specifici, come l'attacco palestinese all'Achille Lauro, anche in quel settore è tutto da costruire. A partire da quello basico sopraricordato: i nomi e i fatti.

Infine un vulnus: la ricerca spagnola. Dal punto di vista della valorizzazione delle vittime come fonti storiche e attori sociali dotati di una autonomia politica e di una valore civile di contrasto al terrorismo, il vulnus del saggio è rappresentato dalla assenza del panorama della ricerca storico-sociale spagnola sul terrorismo.
Gli studi spagnoli sull'ETA e le sue vittime e quelli comparativi Italia/Spagna/Irlanda del Nord, come quello di Rogelio Alonso, o della ricercatrice italiana in Spagna Agata Serranò (1), (ma anche  lo stesso "Ending Terrorism in Italy") avrebbero probabilmente permesso all'Autore di ampliare ulteriormente le prospettive del capito conclusivo, soprattutto in relazione alle vittime.

Studiosi vittime
E' vero che l'indice dei nomi, anche al netto di quelli non italiani, è pur sempre molto ampio, ma non posso non notare che 4 autori scientifici (cioè al netto della memorialistica, come nei casi Rossa, Calabresi e Tobagi, etc.) sono vittime del terrorismo: Angelo Ventura, Guido Petter, Giovanni Moro e Carol Beebe Tarantelli.

Angelo Ventura è giustamente posto in grande risalto. Egli è il primo nome che si incontra della rassegna di Ceci, ma anche alla sua fine, nel bilancio, quando riconosce chi ha maggiormente contribuito a connotare la complessità del fenomeno terroristico: "come hanno dimostrato con chiarezza nei loro lavori Ventura, della Porta, Drake e Weinberg, i principali protagonisti del dibattito".
Mi permetto di aggiungere una notazione metodologica che avevo colto subito nei testi di Angelo Ventura quando la raccolta dei suoi contributi 'a caldo' fu edita da Donizzetti nel 2010 con il titolo: "Per una storia del terrorismo italiano", utilizzando le parole di Sergio Luzzato nella sua recensione sul Domenicale del Sole24Ore, :
"….i saggi di Angelo Ventura colpiscono per la capacità del professore universitario di farsi – a ridosso degli eventi, anzi dentro, quando il terrorismo rosso ancora non apparteneva al passato – una sorta di "storico del presente". Ci sono, negli studi pubblicati da Ventura trent'anni fa e raccolti ora da Donzelli, sollecitazioni di metodo e abbozzi di analisi di cui si potrà fare tesoro nel momento in cui si vorrà ricostruire compiutamente la storia del terrorismo italiano. A cominciare dall'idea che tale storia richieda (parole del 1984) «una lettura globale», dove le imprese del terrorismo rosso vengano studiate contestualmente alle imprese del terrorismo nero, alle trame eversive dei poteri occulti, ai rapporti con la criminalità organizzata, ai collegamenti internazionali sia dei terroristi sia dei servizi segreti.
C'è poi l'aureo principio per cui la storia del partito armato, in quanto storia "normale" di un movimento politico, va ricostruita anzitutto studiando, "banalmente", gli individui che lo hanno promosso, le idee che essi hanno elaborato, i gruppi che li hanno sostenuti sul campo.
Angelo Ventura studia i rivoluzionari italiani del Sessantotto e dintorni alla maniera in cui un maestro degli studi novecenteschi di storia, Franco Venturi, era andato studiando i rivoluzionari del Sette o dell'Ottocento, i giacobini francesi, i populisti russi: cioè a prescindere da ogni sociologismo, guardando agli uomini in carne e ossa, ai loro materiali di lavoro e di lotta, alle loro azioni o realizzazioni concrete. Insomma praticando una storia (diceva Venturi, in polemica con tante bardature di metodo o di pseudo-metodo) «senza additivi»: nomi, luoghi, date..."

Mi sembra opportuno qui segnalare un testo poco noto del professore padovano: quello del suo intervento in occasione del primo convegno promosso Aiviter a Torino nel 1996, "Lotta al terrorismo. Le ragioni e i diritti delle vittime". Raccolta di atti che abbiamo recentemente reso di libero accesso in rete, pubblicandone la versione digitale.
Quell'intervento è stato oggetto di riflessioni dell'Aiviter ancora recentemente utilizzate sul caso Sofri.

Guido Petter, anch'egli vittima di una violenta aggressione a Padova, ha il merito di aver gettato negli studi psicologici una prima analisi, in analogia con Gabriele Calvi, sulle caratteristiche di quella "costellazione" che oggi viene chiamata processo di radicalizzazione e che non pare avere avuto aggiornamenti in anni recenti nel nostro paese.

Sul valore del pamphlet di Giovanni Moro sugli anni Settanta non ho nulla da aggiungere al giusto rilievo che Ceci gli attribuisce. Non conosco invece il lavoro scientifico di Carol B. Tarantelli.

Conclusione
Anticipo le scuse a Giovanni Mario Ceci per il modo poco ortodosso di recensire un lavoro che merita sicuramente grande attenzione e più accurate modalità. Mi auguro che questo saggio sia di vero stimolo ed apertura a future proficue ricerche, come del resto è nelle intenzioni esplicite del suo Autore.


(1) Serranò A., Le armi razionali contro il terrorismo contemporaneo: la sfida delle democrazie di fronte alla violenza terroristica, Giuffrè Editore, 2009

martedì 26 agosto 2014

Terrorismo, sicurezza, post-conflitto... irrisolto!

Daniele Salerno, Terrorismo, sicurezza, post-conflitto. Studi semiotici sulla guerra al terrore. Libreriauniversitaria.it edizioni, 2012.

Il saggio, come definito nella sua introduzione, intende "analizzare il conflitto come un macro-testo che «traduce e interpreta altri testi di una data cultura» (Demaria 2006, p. 55) e che costringe a ridefinire l’idea, per esempio, di comunità, nazione, identità, guerra o nemico".
Questa analisi si svolge su alcuni documenti specifici: da una parte, "la guida spirituale degli attentatori dell’11 settembre, un testo ritrovato in due copie nella valigia del leader del gruppo terroristico e nella macchina di uno degli attentatori", quale esempio di "manipolazione ideologica della memoria culturale" della tradizione islamica; e, dall'altra, i manifesti pubblici affissi nella metropolitana di Londra a seguito degli attentati del 7 luglio 2005, per "un’analisi dei discorsi della sicurezza, cercando di farne emergere la struttura narrativa, i percorsi valoriali e ideologici e le potenziali derive a cui essi si prestano perseguendo l’obiettivo di “difendere la società”."
Il percorso si conclude sul tema della “fine”: come la guerra al terrore sta “andando a finire” dopo i primi quattro anni di amministrazione Obama, che hanno cercato di spostare il discorso pubblico dalla guerra al terrore di Bush, all'apertura verso l'islam che è culminata con la "primavera araba".

Due punti di questa saggio sono di grande interesse. Da una parte l'analisi della "guida spirituale" degli attentatori del 11/9, concepita come una "tecnologia del sé" per costruire un martire: un soggetto di una entità trascendente, ispirato dal timor di Dio, cui è offerta la possibilità di diventare a propria volta origine della paura per gli Occidentali ("la forza dei credenti consiste nel fatto che sono in condizione e capaci di superare la propria paura della morte. Con questa assenza di paura un combattente islamico insegna la paura alla civiltà occidentale", da H. Kippenberg 2004). Dall'altra, l'analisi delle "deriva paranoica" che l'apparato di sicurezza costruisce coinvolgendo i cittadini nel tentativo di prevenire e contrastare nuovi attentati che giunge al paradosso di stimolare i cittadini ad un atteggiamento paranoico analogo a quello degli stessi terroristi: tutti a sorvegliarsi reciprocamente. L'anonimo cittadino invitato a segnalare ogni indizio di pericolo di attentato finisce per assomigliare al terrorista che a sua volta sorveglia per cercare di pianificare i suoi attentati.

La risposta al tema dalla fine, tre anni dopo la scrittura del saggio, è sotto gli occhi di tutte: le speranza della primavera araba sono state sostituite dall'incubo del Califfato dell'Is. Il tentativo di Obama di attenuare la retorica della guerra al terrore favorendo, dopo il discorso al Cairo "A New Beginnig" nel 2009, "la nuova santa alleanza tra Mela e Mezzaluna" - quella cioè politico-tecnologica che univa la nuova amministrazione USA, le aziende tecnologiche che con i loro hardware portatili e software network and social oriented, e le popolazioni arabe - è fallito.
Oggi possiamo dire che gli errori precedenti (dai sostegni occidentali ai vari rais nordafricani alla guerra in Iraq) erano troppo gravidi di conseguenze per poter agevolare un processo di democratizzazione che portasse al successo i giovani arabi in rivolta.
L'argine artificiale al fondamentalismo islamico rappresentato dai regimi di Mubarak, Gheddafi & c. ha lasciato strascichi tali da non permettere alle nuove forze di superare la prova della maggioranze nelle prime libere elezioni che sono seguite. Su tali rivoluzioni, infatti, la memoria delle vittime islamiste, represse dai vari rais, ha sovrastato la volontà di modernizzazione, rimasta minoranza.
La possibilità di giungere ad un post-conflitto nella guerra al terrorismo post 11/9 è quindi venuta meno: il cambio di narrativa sul mondo mussulmano di Obama non è bastato. L'eco delle narrazioni della vendetta del gruppo "etnico vittima" ha di gran lunga sovrastato quello delle parole e dei propositi del "new beginning" giunte all'orecchio delle nuove generazioni arabe.

In mezzo a tutto ciò una Europa quasi immobile, incerta tra gli affanni di una crisi sempre più depressiva e la paura di trovarsi presto i "mori" alle porte della Spagna.

sabato 26 luglio 2014

Relazione Metodologia del Progetto Europeo C4C

IL TEST DI UTILIZZO DELLA PIATTAFORMA DEL PROGETTO C4C (COUNTERNARRATION FOR COUNTERTERRORISM) CON IL GRUPPO TARGET. 
METODOLOGIA, DIDATTICA E RISULTATI ALLA SCUOLA "ALBE STEINER" DI TORINO


English version

lunedì 12 maggio 2014

"L'Europa contro il terrorismo". Intervento del 12 maggio 2014



A partire dai fatti degli anni di piombo, dalle testimonianze dei figlie e delle figlie delle vittime del terrorismo, di cui ci parlerà il professor Maida nella sua lectio magistralis, oggi saranno presentati i risultato di due percorsi didattici e metodologici in parte diversi, “Memoria futura. Leggere gli ‘Anni di Piombo’ per un domani senza violenza”, il primo,  e il progetto europeo C4C “The Terrorism Survivors Storytelling. Piattaforma globale per le storie di resilienza e sensibilizzazione al problema della radicalizzazione”, il secondo, ma entrambi convergenti nelle loro finalità. 
Lavorare sulla storia del terrorismo e la testimonianza delle vittime con il fine di non fare solo storia contemporanea nelle scuole, ma anche educazione alla cittadinanza, alla cultura democratica del pluralismo, della non violenza. Un’educazione civica per la far crescere il pensiero critico verso le varie forme di propaganda della violenza politica. Una crescita della consapevolezza dei rischi insiti nei processi di radicalizzazione che possono condurre al terrorismo e rovinare la vita di giovani. Un’educazione sorretta da una pedagogia delle tolleranza contro quella dell’intolleranza: cioè la paziente e difficile cultura delle mediazioni e del riformismo in opposizione alle facili scorciatoie del ‘tutto subito e guai a chi si mette di mezzo’.
Si tratta di un percorso educativo tutt’altro che facile: i ruoli dei giocatori nei fatti di terrorismo, a parte le vittime, non sono mai limpidi: i terroristi, le istituzioni  statali, la politica, i servizi segreti interni e stranieri giocano funzioni diverse e complesse che non seguono schemi banali e o logiche manichee. E’ facile perdersi nel groviglio di interessi e lasciarsi andare a giudizi superficiali. In questo percorso didattico abbiamo quindi privilegiato presentare quello che è il risultato fattivo più rilevante del terrorismo: quello di colpire uccidere o ferire persone che sono sempre degli innocenti. Smascherare quello che si cela dietro le propaganda: gli ideali politici, nazionali o religiosi e la giustizia acclamati che si risolvono nell’atto vigliacco - concreta ‘banalità del male’ - di mettere bombe o sparare a cittadini inermi.
Due progetti presenti nella collezione di buone pratiche per la prevenzione della radicalizzazione violenta, pubblicato dalla rete RAN della CommissioneEuropea. Un’Europa che, seppur ultimamente talvolta critica, ha il merito di aver colto, prima dell’Italia, l’importante ruolo che le vittime e le loro associazioni posso svolgere nella prevenzione del terrorismo.
Due progetti che si sono rivolti a tipologie di scuole diverse con classi e studenti di età diverse, ma accomunati dal fatto di chiede a tutti i giovani coinvolti di fare uno sforzo per comprendere il fenomeno per poi farne oggetto di una loro valutazione e riflessione. Delle valutazioni che talvolta non possono che restare degli interrogativi. Riflessioni che in alcuni casi abbiamo chiesto fossero comunicate con gli strumenti della cultura giovanile, della musica e dei video clip, in modo che colpissero più i loro coetanei che non noi o gli insegnanti.
Rinnovo i ringraziamenti, da parte dei componenti il gruppo scuola di Aiviter, agli enti che ci hanno sostenuto e agli insegnanti e agli studenti tutti che hanno condiviso con noi una parte di questo anno scolastico, augurandoci di proseguire il lavoro nei prossimi, essendo - con un po’ di orgoglio - consapevoli che una migliore qualità democratica del nostro paese passa anche da progetti come questi.

sabato 10 maggio 2014

L'Europa contro il terrorismo, gli studenti di Torino



Tra i lavori presentati dagli studenti della manifestazione questo sul backstage delle lavorazioni all'Istituto "Abe Steiner" di Torino nell'ambito del progetto europeo Counter-narrative for Counter-terrorism - C4C http://www.c4c-project.org



venerdì 25 aprile 2014

Il processo di radicalizzazione violenta del movimento No Tav


"Giudici popolari sotto scorta, in un clima che ricorda quello degli anni di piombo: è con queste premesse che si aprirà a Torino, il prossimo 22 maggio, il processo che vede come imputati i quattro No Tav accusati di terrorismo". E' questa la notizia dei giornali degli ultimi giorni che seguono le vicende intorno alla grande opera in Val Susa, in un clima sempre più pesante. C'è un giornalista pedinato, videosorvegliato e schedato e un collega dello stesso giornale che firma appelli per i quattro imputati. Ci sono i lavoratori delle imprese del cantiere i cui nomi e indirizzi vengono pubblicati su volantini e giornali che invitano gli adepti ad integrare completare i dati raccogliendo altre informazioni; ci sono le prese di posizione di partiti ed istituzioni che hanno toni sempre più duri e allarmati. Una lunga escaltion fatta di serie di minacce ed intimidazioni ad amministratori, giudici, imprenditori e politici nella quale è difficile distinguere la parte pacifica del movimento No Tav, che appare come involontario ‘brodo di coltura’ dalla parte più radicalizzata dei gruppi violenti. I fatti relativi al processo sono le bombe molotov lanciate a pochi metri dal tunnel, dove erano al lavoro gli operai, i cui fumi provocati dall'incendio di un generatore causarono principi di intossicazione tra i lavoratori, bloccati nella galleria. I quattro inquisiti quali responsabili dei fatti vengono dai centri solidali e l'accusa della procura torinese nei loro confronti è assai grave: quella di terrorismo. Tale accusa è il fulcro delle polemiche più feroci di questi ultimi mesi e l'origine di profonde spaccature nel PD, nell'ANPI, nei sindacati e nella sinistra in generale.

Qualche settimana fa, in occasione di un intervento pubblico dell'ex Procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli, contestato da una manifestazione fuori dalla sede della circoscrizione in cui si svolgeva, ho provato ad imbastire il seguente ragionamento. Caselli stesso, ritenuto dai contestatore No Tav ispiratore dell'accusa di terrorismo nel processo in oggetto, aveva riconosciuto nel suo intervento che la tipologia di violenza politica che si esprime nel movimento contro l'alta velocità non è paragonabile con le bande armate degli anni di piombo, e da lì sono partito per far presente che negli ultimi anni, come denunciato in piena solitudine da Pietro Ichino e dall'Associazione Italiana Vittime del terrorismo, si è assistito ad un curioso esito processuale in almeno due casi: nel 2012 la sentenza della Cassazione contro le nuove Brigate Rosse aveva incredibilmente limitato la contestazione agli imputati al solo reato di «associazione sovversiva», assolvendoli dall’accusa di finalità terroristiche. Lo stesso è capitato l'anno scorso con la sentenza della Corte d’Assise di Roma che, dopo nove anni di processo, ha assolto dall’accusa di finalità terroristiche i due carcerieri dalle Falangi verdi di Maometto nel rapimento di quattro italiani in Irak nel 2004 in cui morì Fabrizio Quattrocchi.
Di fronte ad una tendenza a limitare la finalità di terrorismo in casi in cui sono coinvolti gruppi espressamente terroristi, è ragionevole domandarsi perché inserirla tra i capi di accusa ai 4 esponenti di centro sociali. Per quanto grave sia l'atto compiuto nel cantiere della TAV, una siffatta accusa - che rischia di decadere tra qualche anno in Appello o in Cassazione, come per altro capitato nel processo ai primi anarchici coinvolti in attentati in Val Susa venti anni fa - ottiene più probabilmente il risultato di radicalizzare ulteriormente il movimento No Tav. Alimenta cioè un processo di vittimizzazione, che nel mondo degli studi sul terrorismo è ben conosciuto, che costituisce la benzina con la quale i gruppi alimentano il grado di violenza della propria radicalizzazione fino a sfociare nel terrorismo vero e proprio.
Se negli anni ’70 i fenomeni violenti furono spesso sottovalutati nel loro evolversi verso il terrorismo, oggi non abbiamo una agire parallelo tra gruppi terroristi e organizzazioni estremiste che fomentano la piazza. Abbiamo solo le seconde, per fortuna. Abbiamo cioè un processo di radicalizzazione in corso, con i vari step che da un generico antagonismo procedere per estremizzazioni e violenze successive, ma che non è giunto al suo ultimo gradino, il terrorismo. Al terrorismo si giunge quando le persone radicalizzate entrano in clandestinità, per esempio, e delle persone di un centro sociale non sono in clandestinità.
Tutto questo per sottolineare che se poi spuntano, com’è capitato a metà febbraio di questo anno, lettere come il documento firmato Nuclei Operativi Armati (Noa), che annuncia «la lotta armata di liberazione», la «lotta di liberazione contro il Tav» e un «tribunale rivoluzionario» che «condanna a morte» alcune persone ritenute «responsabili della repressione in atto», tale pericolosa dinamica potrebbe non essere solo l’approdo naturale di una minoranza del movimento che decide di passare alla minaccia terroristica, ma anche il risultato di una carenza: 1) di cultura della politica sul processi di radicalizzazione; 2) degli interventi delle autorità nella prevenzione del terrorismo; 3) di riflessione della Magistratura per uniformare i criteri di valutazione sull’uso della “finalità di terrorismo”.

L’allarmismo che scaturisce dal clima violento ed intimidatorio creatosi in Val Susa, da una parte, e dalla risposta dello Stato che mette in campo l’accusa di terrorismo, dall’altra, richiederebbe un grande senso di responsabilità tra le parte, il movimento No-Tav, la magistratura, la politica in modo da elidere alibi e utili ipocrisie e cercare di riportare il conflitto sulla TAV a livello accettabile.

Il processo di radicalizzazione violenta del movimento No Tav



"Giudici popolari sotto scorta, in un clima che ricorda quello degli anni di piombo: è con queste premesse che si aprirà a Torino, il prossimo 22 maggio, il processo che vede come imputati i quattro No Tav accusati di terrorismo". E' questa la notizia dei giornali degli ultimi giorni che seguono le vicende intorno alla grande opera in Val Susa, in un clima sempre più pesante. C'è un giornalista pedinato, videosorvegliato e schedato e un collega dello stesso giornale che firma appelli per i quattro imputati. Ci sono i lavoratori delle imprese del cantiere i cui nomi e indirizzi vengono pubblicati su volantini e giornali che invitano gli adepti ad integrare completare i dati raccogliendo altre informazioni; ci sono le prese di posizione di partiti ed istituzioni che hanno toni sempre più duri e allarmati. Una lunga escaltion fatta di serie di minacce ed intimidazioni ad amministratori, giudici, imprenditori e politici nella quale è difficile distinguere la parte pacifica del movimento No Tav, che appare come involontario ‘brodo di coltura’ dalla parte più radicalizzata dei gruppi violenti. I fatti relativi al processo sono le bombe molotov lanciate a pochi metri dal tunnel, dove erano al lavoro gli operai, i cui fumi provocati dall'incendio di un generatore causarono principi di intossicazione tra i lavoratori, bloccati nella galleria. I quattro inquisiti quali responsabili dei fatti vengono dai centri solidali e l'accusa della procura torinese nei loro confronti è assai grave: quella di terrorismo. Tale accusa è il fulcro delle polemiche più feroci di questi ultimi mesi e l'origine di profonde spaccature nel PD, nell'ANPI, nei sindacati e nella sinistra in generale.

Qualche settimana fa, in occasione di un intervento pubblico dell'ex Procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli, contestato da una manifestazione fuori dalla sede della circoscrizione in cui si svolgeva, ho provato ad imbastire il seguente ragionamento. Caselli stesso, ritenuto dai contestatore No Tav ispiratore dell'accusa di terrorismo nel processo in oggetto, aveva riconosciuto nel suo intervento che la tipologia di violenza politica che si esprime nel movimento contro l'alta velocità non è paragonabile con le bande armate degli anni di piombo, e da lì sono partito per far presente che negli ultimi anni, come denunciato in piena solitudine da Pietro Ichino e dall'Associazione Italiana Vittime del terrorismo, si è assistito ad un curioso esito processuale in almeno due casi: nel 2012 la sentenza della Cassazione contro le nuove Brigate Rosse aveva incredibilmente limitato la contestazione agli imputati al solo reato di «associazione sovversiva», assolvendoli dall’accusa di finalità terroristiche. Lo stesso è capitato l'anno scorso con la sentenza della Corte d’Assise di Roma che, dopo nove anni di processo, ha assolto dall’accusa di finalità terroristiche i due carcerieri dalle Falangi verdi di Maometto nel rapimento di quattro italiani in Irak nel 2004 in cui morì Fabrizio Quattrocchi.
Di fronte ad una tendenza a limitare la finalità di terrorismo in casi in cui sono coinvolti gruppi espressamente terroristi, è ragionevole domandarsi perché inserirla tra i capi di accusa ai 4 esponenti di centro sociali. Per quanto grave sia l'atto compiuto nel cantiere della TAV, una siffatta accusa - che rischia di decadere tra qualche anno in Appello o in Cassazione, come per altro capitato nel processo ai primi anarchici coinvolti in attentati in Val Susa venti anni fa - ottiene più probabilmente il risultato di radicalizzare ulteriormente il movimento No Tav. Alimenta cioè un processo di vittimizzazione, che nel mondo degli studi sul terrorismo è ben conosciuto, che costituisce la benzina con la quale i gruppi alimentano il grado di violenza della propria radicalizzazione fino a sfociare nel terrorismo vero e proprio.
Se negli anni ’70 i fenomeni violenti furono spesso sottovalutati nel loro evolversi verso il terrorismo, oggi non abbiamo una agire parallelo tra gruppi terroristi e organizzazioni estremiste che fomentano la piazza. Abbiamo solo le seconde, per fortuna. Abbiamo cioè un processo di radicalizzazione in corso, con i vari step che da un generico antagonismo procedere per estremizzazioni e violenze successive, ma che non è giunto al suo ultimo gradino, il terrorismo. Al terrorismo si giunge quando le persone radicalizzate entrano in clandestinità, per esempio, e delle persone di un centro sociale non sono in clandestinità.
Tutto questo per sottolineare che se poi spuntano, com’è capitato a metà febbraio di questo anno, lettere come il documento firmato Nuclei Operativi Armati (Noa), che annuncia «la lotta armata di liberazione», la «lotta di liberazione contro il Tav» e un «tribunale rivoluzionario» che «condanna a morte» alcune persone ritenute «responsabili della repressione in atto», tale pericolosa dinamica potrebbe non essere solo l’approdo naturale di una minoranza del movimento che decide di passare alla minaccia terroristica, ma anche il risultato di una carenza: 1) di cultura della politica sul processi di radicalizzazione; 2) degli interventi delle autorità nella prevenzione del terrorismo; 3) di riflessione della Magistratura per uniformare i criteri di valutazione sull’uso della “finalità di terrorismo”.

L’allarmismo che scaturisce dal clima violento ed intimidatorio creatosi in Val Susa, da una parte, e dalla risposta dello Stato che mette in campo l’accusa di terrorismo, dall’altra, richiederebbe un grande senso di responsabilità tra le parte, il movimento No-Tav, la magistratura, la politica in modo da elidere alibi e utili ipocrisie e cercare di riportare il conflitto sulla TAV a livello accettabile.