Premessa
Sono
in autostrada diretto all'aereoporto di Malpensa per volare in
Danimarca, alla radio, su RADIO3, sento la presentazione di un libro
fresco di stampa con l'intervista al suo autore che dice più o meno:
"non ci crederà ma uno dei filoni di ricerca più promettenti è quello
delle memorie dei familiari delle vittime del terrorismo". Attivo la mia
attenzione e mi registro il nome: Giovanni Mario Ceci e il titolo del
suo libro che ricostruisce e presenta il trentennale dibattito
accademico sul terrorismo italiano nell'ambito delle scienze
storico-sociali. Ad Aahrus mi accolgono i professori Anna Cento Bull e
Lorenzo Cecchini per due giorni di lavori presso la locale università e
subito racconto loro della trasmissione chiedendo se avessero notizie di
questo nuova pubblicazione. Anna mi risponde di aver ricevuto una email
dall'autore che le scrive di aver dato ampio risalto al suo lavoro.
In effetti nelle pagine finali del penultimo capitolo sul dibattito recente a proposito dei "tentativi di elaborare categorie concettuali in grado di fornire un'interpretazione complessiva delle stagione terroristica" si possono leggere due nomi: "Autori
di queste riflessioni sono soprattutto due dei più acuti interpreti
degli ultimi anni della recente storia nazionale, Anna Cento Bull e Marc
Lazar".
Purtroppo però l'Autore si è perso l'ultimo lavoro di
Anna Cento Bull, "Ending Terrorism in Italy", uscito presumibilmente
quando aveva già terminato la sua ricerca. Un vero peccato perché
avrebbe potuto chiarire meglio alcuni prospettive sul futuro degli studi
che nel capitolo sulle considerazioni finali restano appena delineate e
in un paio di casi, omesse.
Andando per punti, faccio seguire le
mie considerazioni da questa mia particolare postazione che da una
parte mi ha portato a collaborare da 15 anni con l'Associazione italiana
vittime del terrorismo (Aiviter) e da tra 3 a con la rete RAN
della DG Home della Commissione Europea sui temi della radicalizzazione
violenta, e dall'altra mi riconduce agli studi di storia con Franco
Venturi, di anni assai più lontani.
Dibattito accademico e dibattito pubblico.
Ero
interdetto dal sottotitolo. Mi domandavo, ma quale dibattito? In vero,
il termine dibattito è inteso dall'Autore, ed in ambito accademico, come
quello 'virtuale' tra libri scientifici: l'eredità e le critiche che
ogni studioso porta rispetto a quelli che lo hanno preceduto. L'Autore
stesso parla di un ricco "dibattito propriamente scientifico sul terrorismo italiano", ma osserva: "tuttavia, sino ad oggi, esso è stato quasi del tutto ignorato e mai riconosciuto".
Un
filone di ricerca che aggiungerei è, allora, proprio quello di
analizzare il rapporto tra dibattito accademico e quello pubblico a
livello di quotidiani e media. In questi ultimi trenta anni l'attenzione
dei media è sempre stata essenzialmente verso quelle pubblicazioni non
scientifiche: dalla "memorialistica armata" degli ex terroristi alla
saggistica dietrologica incentrata su teorie del complotto. Gli inserti
letterari al massimo hanno recensito romanzi sugli anni di piombo. Anche
quando hanno recensito saggi non mi risulta si siano mai sviluppati
dibattiti e polemiche. Vige ancora un clima ipocrita per cui tutti
meritano una recensione, ma il diritto di replica e polemica, in ambito
appunto accademico, è questione dalla quale direttori di giornali e
responsabili culturali si tengono alla larga.
In epoca di internet
le cose sono cambiate, ma solo in apparenza: qualche polemiche può
nascere on line in rete, ma l'eco non approda sui media tradizionali.
Il
caso più recente riguarda Alessandro Orsini, ricercatore nella nuova
generazione citato dall'Autore per la sua monografia sulle BR, e che ho
invitato più volte ad iniziative di Aiviter e della RAN, il quale è
stato violentemente attaccato utilizzando però una sua più recente
pubblicazione su Gramsci e Turati. La polemica si è scatena on line, ma
quando due recensione sono apparsa, una positiva su "la Repubblica" a
firma di Roberto Saviano, l'altra negativa da parte dell'esponente delle
vecchia generazione sessantottina, Angelo d'Orsi, su "La Stampa",
nessuna replica è seguita, se non il silenzio.
Deficit storici e studiosi embedded.
Avendo scritto tre anni e mezzo fa un post intitolato, in modo un po' avventato, "L’accademia italiana di fronte agli anni di piombo",
la lettura del libro di Giovanni Mario Ceci mi ha fornito alcune
(s)consolanti conferme. Infatti nonostante il profluvio di pubblicazioni
sul fenomeno terroristico italiano, l'Autore rimarca il fatto che gli
storici hanno avuto nel dibatto "un ruolo decisamente minore",
come del resto anche a livello internazionale. Inoltre, molti lavori
tanto storici che nelle scienze sociali, sopratutto quali realizzati 'a
caldo', ma in generale quelli prodotti della generazione che vissuto i
fatti di cui scrive, erano talvolta viziati da "pregiudizi legati alle culture politiche di appartenenza di ciascun studioso".
Ceci, in ambito di studi internazionali, utilizza il termine di studiosi 'embedded'
quando sono sospetti di essere privi di una autonomia critica in quanto
legati in maniera troppo stretta agli organi di governo (di difesa o
intelligence). Per l'Italia, l'Autore è più cauto, ma si potrebbe ben
parlare di studiosi embedded nella galassia delle sinistra, del PCI in
moltissimi casi. Le ricerche sul terrorismo, per altro quasi tutte assai
valide, del Centro studi Cattaneo furono finanziate dalla Regione
Emilia Romagna. Gli studiosi dell'Università di Torino, da Tranfaglia a
Bravo, erano parte del sistema PCI/CGIL e i loro lavori nascevano
talvolta addirittura in seno alla "Sezioni Problemi dello Stato" del PCI
prima ancora che all'Università.
Traspare abbastanza chiaramente che
molte di quelle analisi, in particolare quelle 'monocausali', sono
reperti oggi privi di ogni utilità interpretativa in quanto frutto
avvelenato di teoremi politici a priori del fenomeno, anche se per
alcuni di loro, specie la versione più complottistica della teoria del
"doppio Stato", conta ancora oggi una discreta fortuna tra alcuni
giovani ricercatori, epigoni della tradizione marxista.
Nel
panorama degli studi italiani verrebbe quasi da tracciare una
geopolitica: le ricerche italiane pare abbiano 4 punti di propagazione:
Torino, Bologna, Padova e Roma. Ci sono delle peculiarità nelle ricerche
sorte in ciascuno di tali centri? Lo accenno solo come ulteriore
suggestione per ricerche future.
Le vittima, ovvero la storia al contrario e il ruolo rimosso.
Nell'introduzione
e nelle conclusioni trovo quello che avevo ascoltato alla radio: a
seguito dell'istituzione della giornata delle memoria dedicata alla
vittime del terrorismo (nel 2007) "Negli
ultimi anni, nel discorso pubblico si è dato in effetti sempre più
spazio al punto di vista delle vittime, che rapidamente è divenuto
significativamente un terreno d'elezione anche per l'editoria". E di studi su memoria, contromemoria e conflitti di memoria che prendono in oggetto sia le "politiche della memoria che il ruolo delle associazioni dei familiari delle vittime", sia "quell'insieme di libri, testimonianze, analisi della generazione i cui genitori sono stati vittime di azioni terroristiche".
Non
era probabilmente compito di tale saggio sottolineare un aspetto
storico che riguarda le vittime, ma siccome si configura come opposto
rispetto a quello storiografico occorso alle vittime della Shoa, vale la
pena introdurlo come ulteriore filone di ricerca.
Come sottolineai in un mio intervento a Bruxelles nel 2011: "Tzvetan
Todorov ci ricorda che la base di ogni ricerca storica è la
sistemazione curata e completa dei fatti, come il “Memoriale dei
deportati ebrei” redatto in Francia da Serge Klarsfedl che documenta con
estrema semplicità i nomi, i luoghi, le date di nascita. Questa
attività risponde innanzitutto a una prima necessità: restituire dignità
a tutte le vittime."
Il paradosso risiede nel fatto che fino
al 2007 non c'è stato alcun elenco delle vittime del terrorismo; e a
tutt'oggi manca un elenco esaustivo dei feriti e delle vittime italiane
del terrorismo internazionale.
Se il libro di Donatella delle Porta,
"Cifre crudeli", riporta i dati quantitativi fino al 1982, i nomi delle
vittime individuali, i feriti e quelle dei casi di terrorismo
internazionale non appaiono fino al 2001 quando tale attività ha
iniziato a svolgerla Aiviter, sul suo sito internet.
Il
secondo paradosso è relativo al valore pedagogico della testimonianza
delle vittime. L'identità europea delle generazioni postbelliche si è
formata sulle testimonianze dei sopravvissuti alla Shoa, che le hanno
vaccinato - seppur non nella completa totalità - dai virus fascisti,
nazionalisti e razziali, mentre in Italia solo quest'anno si è giunti ad
un protocollo tra Ministero dell'Istruzione ed associazioni delle
vittime, per pianificare delle attività nelle scuole sul tema del
terrorismo. In questi trent'anni solo l'iniziativa dei singoli e delle
associazioni ha visto alterni e disomogenei interventi nelle scuole per
portare testimonianza sui fatti e su un fenomeno assente dai programmi
scolastici. Una testimonianza quella delle vittime, cui sfugge tuttora
ai più, il valore di prevenzione dei processi di radicalizzazione che
può svolgere se articolata con metodo e programmi bene definiti.
Questa
paradossi sono figli di un fattore che si comprendono dalla lettura del
saggio "Ending Terrorism in Italy", di Anna Cento Bull e Philip Cooke
(Routledge, 2013) - qui recensito - nel quale viene ben delineata "la "strategia dell’amnesia" portata avanti dallo Stato Italiano". Il concetto che Ceci accenna nel suo saggio solo come "il
rischio di un possibile 'oblio', se non addirittura di una vera e
propria rimozione collettiva del ricordi degli "anni di piombo.",
riferendosi a De Luna e Grevi, nel saggio inglese di Cento Bull viene
analizzato come frutto di una strategia che dalle leggi premiali su
pentiti e dissociati è proseguita in quel processo di conciliazione con i
terroristi svolto nell'ombra, con l'ausilio delle Chiesa e delle
organizzazioni cattoliche, lasciando le vittime prive di ruoli nell'exit strategy condotta dallo Stato. Una strategia che spiega bene le "ferite aperte",
di cui peraltro Ceci è ben consapevole, la povertà del lavoro
storiografico sulle vittime e la mancata attribuzione di un ruolo
sociale e pedagogico a queste ultime.
Le due omissioni e un vulnus.
Quello
che nel saggio di Cento Bull e Cook è segnalata come una delle piste di
ricerca più interessante, cioè quella sul ruolo della Chiesa e delle
associazioni cattoliche nella fase di uscita dal terrorismo, è una
delle omissioni del capitolo finale.
L'altra è quella relativa al
terrorismo internazionale in Italia durante gli anni di piombo. A fronte
di qualche ricerca su fatti specifici, come l'attacco palestinese
all'Achille Lauro, anche in quel settore è tutto da costruire. A partire
da quello basico sopraricordato: i nomi e i fatti.
( Si veda la mia intervista su La Stampa del 2011 e il post "Premessa ad una ricerca sul terrorismo internazionale e le sue vittime")
Infine
un vulnus: la ricerca spagnola. Dal punto di vista della valorizzazione
delle vittime come fonti storiche e attori sociali dotati di una
autonomia politica e di una valore civile di contrasto al terrorismo, il
vulnus del saggio è rappresentato dalla assenza del panorama della
ricerca storico-sociale spagnola sul terrorismo.
Gli studi spagnoli
sull'ETA e le sue vittime e quelli comparativi Italia/Spagna/Irlanda del
Nord, come quello di Rogelio Alonso, o della ricercatrice italiana in
Spagna Agata Serranò (1), (ma anche lo stesso "Ending Terrorism in
Italy") avrebbero probabilmente permesso all'Autore di ampliare
ulteriormente le prospettive del capito conclusivo, soprattutto in
relazione alle vittime.
Studiosi vittime
E'
vero che l'indice dei nomi, anche al netto di quelli non italiani, è pur
sempre molto ampio, ma non posso non notare che 4 autori scientifici
(cioè al netto della memorialistica, come nei casi Rossa, Calabresi e
Tobagi, etc.) sono vittime del terrorismo: Angelo Ventura, Guido Petter,
Giovanni Moro e Carol Beebe Tarantelli.
Angelo Ventura è
giustamente posto in grande risalto. Egli è il primo nome che si
incontra della rassegna di Ceci, ma anche alla sua fine, nel bilancio,
quando riconosce chi ha maggiormente contribuito a connotare la
complessità del fenomeno terroristico: "come hanno dimostrato con
chiarezza nei loro lavori Ventura, della Porta, Drake e Weinberg, i
principali protagonisti del dibattito".
Mi permetto di
aggiungere una notazione metodologica che avevo colto subito nei testi
di Angelo Ventura quando la raccolta dei suoi contributi 'a caldo' fu
edita da Donizzetti nel 2010 con il titolo: "Per una storia del
terrorismo italiano", utilizzando le parole di Sergio Luzzato nella sua
recensione sul Domenicale del Sole24Ore, :
"….i
saggi di Angelo Ventura colpiscono per la capacità del professore
universitario di farsi – a ridosso degli eventi, anzi dentro, quando il
terrorismo rosso ancora non apparteneva al passato – una sorta di
"storico del presente". Ci sono, negli studi pubblicati da Ventura
trent'anni fa e raccolti ora da Donzelli, sollecitazioni di metodo e
abbozzi di analisi di cui si potrà fare tesoro nel momento in cui si
vorrà ricostruire compiutamente la storia del terrorismo italiano. A
cominciare dall'idea che tale storia richieda (parole del 1984) «una
lettura globale», dove le imprese del terrorismo rosso vengano studiate
contestualmente alle imprese del terrorismo nero, alle trame eversive
dei poteri occulti, ai rapporti con la criminalità organizzata, ai
collegamenti internazionali sia dei terroristi sia dei servizi segreti.
C'è
poi l'aureo principio per cui la storia del partito armato, in quanto
storia "normale" di un movimento politico, va ricostruita anzitutto
studiando, "banalmente", gli individui che lo hanno promosso, le idee
che essi hanno elaborato, i gruppi che li hanno sostenuti sul campo.
Angelo
Ventura studia i rivoluzionari italiani del Sessantotto e dintorni alla
maniera in cui un maestro degli studi novecenteschi di storia, Franco
Venturi, era andato studiando i rivoluzionari del Sette o
dell'Ottocento, i giacobini francesi, i populisti russi: cioè a
prescindere da ogni sociologismo, guardando agli uomini in carne e ossa,
ai loro materiali di lavoro e di lotta, alle loro azioni o
realizzazioni concrete. Insomma praticando una storia (diceva Venturi,
in polemica con tante bardature di metodo o di pseudo-metodo) «senza
additivi»: nomi, luoghi, date..."
Mi sembra opportuno qui
segnalare un testo poco noto del professore padovano: quello del suo
intervento in occasione del primo convegno promosso Aiviter a Torino nel
1996, "Lotta al terrorismo. Le ragioni e i diritti delle vittime".
Raccolta di atti che abbiamo recentemente reso di libero accesso in
rete, pubblicandone la versione digitale.
Quell'intervento è stato oggetto di riflessioni dell'Aiviter ancora recentemente utilizzate sul caso Sofri.
Guido
Petter, anch'egli vittima di una violenta aggressione a Padova, ha il
merito di aver gettato negli studi psicologici una prima analisi, in
analogia con Gabriele Calvi, sulle caratteristiche di quella
"costellazione" che oggi viene chiamata processo di radicalizzazione e
che non pare avere avuto aggiornamenti in anni recenti nel nostro paese.
Sul
valore del pamphlet di Giovanni Moro sugli anni Settanta non ho nulla
da aggiungere al giusto rilievo che Ceci gli attribuisce. Non conosco
invece il lavoro scientifico di Carol B. Tarantelli.
Conclusione
Anticipo
le scuse a Giovanni Mario Ceci per il modo poco ortodosso di recensire
un lavoro che merita sicuramente grande attenzione e più accurate
modalità. Mi auguro che questo saggio sia di vero stimolo ed apertura a
future proficue ricerche, come del resto è nelle intenzioni esplicite
del suo Autore.
(1) Serranò A., Le armi razionali contro il terrorismo contemporaneo: la sfida delle democrazie di fronte alla violenza terroristica, Giuffrè Editore, 2009
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