domenica 23 novembre 2008

Il Terrorismo e i Diritti Umani Universali

Parigi 23 novembre 2008

Nel quadro del 60° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, si è svolta la

Conferenza Internazionale
dal titolo
"Il Terrorismo e i Diritti Umani Universali"

Intervento di Luca Guglielminetti, responsabile delle relazioni internazionali AIVITER



Porto i saluti e il ringraziamento da parte dell’Associazione Italiana Vittime del Terrorismo e del suo presidente, Dante Notaristefano, al “Mouvement pour la paix et contre le terrorisme” per l’invito a questa conferenza e a Huguette Magnis Chomsky per tutto il grande lavoro che sta svolgendo per tessere e fornire slancio ad una rete internazionale di associazioni sotto il comune denominatore della lotta al terrorismo.

Devo subito premettere che, pur parlando in questa sessione dedicata alle voce delle vittime, io non sono né vittima né parente di vittima del terrorismo, ma dal 2002 opero per l’associazione che qui rappresento nel settore della comunicazione, della didattica e delle relazioni internazionali. Quanto sottoporrò alla vostra attenzione è quindi una mia personale valutazione, maturata però a stretto contatto con le vittime e i loro problemi, e con la dirigenza dell’Associazione.
Tengo a specificarlo non solo per ordinaria precisione, ma perché la voce della vittime del terrorismo pretende un diritto alla parola che è di una natura più profonda di quello che usualmente appartiene ad ogni cittadino di un paese libero. Una profondità che proviene da un fatto di semplice evidenza: le vittime decedute non hanno voce, mentre quella dei superstiti feriti e dei familiari è incrinata a causa delle offese che con difficoltà si superano, come avviene purtroppo anche per le lesioni dei loro corpi e delle loro anime.

E’ proprio partendo da questa considerazione che prende avvio l’interrogativo che vorrei qui sottoporre a riflessione comune. Come è possibile riequilibrare la memoria dei fatti degli ex-terroristi, vivi e liberi di scrivere, con quella delle loro vittime, se queste sono morte o se la loro voce è resa labile o muta dall’offesa?
E’ vero che questo interrogativo probabilmente interessa essenzialmente i paesi, come la Spagna e l’Irlanda, oltre l’Italia, che hanno conosciuto un certo tipo di terrorismo: quello che poteva contare su una più o meno ampia simpatia ideologica di parte della pubblica opinione e dell’intellighenzia, ma l’ampliarsi delle comunità arabe in Europa potrebbe rendere il problema attuale anche nel contesto del terrorismo di matrice islamica.

Per meglio esplicare il problema della memoria riporto la riflessione di un filologo dell’Università di Torino che ha curato una recente pubblicazione sulle lettere dalla prigione dei terroristi di Aldo Moro, il presidente della Democrazia Cristiana e più volte Primo Ministro rapito e poi ucciso dalla Brigate Rosse nel 1978.
Miguel Gotor, in Lettere dalla prigionia, scrive:
«La memorialistica (degli ex terroristi) gode inoltre dello sgradevole privilegio che il “testimone integrale”, Aldo Moro, non può più dire la sua, poiché non è sopravvissuto al baratro in cui è stato gettato e ha così perduto per sempre il diritto alla parola. Perciò i suoi carcerieri di ieri possono continuare a tenerlo prigioniero oggi attraverso un uso strumentale della memoria. Un uso necessariamente funzionale ai bisogni attuali (giudiziari, politici, morali, psicologici, religiosi) di uomini liberi o in cerca di libertà, ma non alla ricostruzione storica di quanto avvenne, di un passato sul quale continuano a esercitare una monopolistica e paradossale dittatura della testimonianza».

Questa dittatura della testimonianza ha una conseguenza devastante per i sopravvissuti e i parenti, perché oggi sono loro e non gli ex terroristi in uno stato di prigionia. Prigionieri cui tocca la pena di ascoltare una periodica mistificazione dei fatti ad ogni articolo di stampa o libro pubblicato dai terroristi di ieri o dai loro ideologi.
Scriveva il fondatore e presidente della nostra associazione, Maurizio Puddu, gambizzato dalle Brigate Rosse sotto casa sua a Torino nel 1977: «… è terribilmente sgradevole ascoltare oggi nuove interpretazioni che nella realtà tendono a cambiare i fatti e il loro incontrovertibile significato».
Alle vittime del terrorismo e ai loro familiari non è quindi data la possibilità di guardare avanti: alle loro spalle troppe ombre velano una verità gravata dalla dittatura della testimonianza.
Quella stagione, comunemente definita anni di piombo, è così impossibilitata a consegnarsi alla storia «in quanto troppe verità mancano, troppe responsabilità non sono state accertate, molti attendono ancora giustizia e il dibattito resta inquinato dalle convenienze e dalle autodifese, anche quelle generazionali» scrive Mario Calabresi, figlio del commissario Luigi, ucciso a Milano nel 1972.
Questa dittatura della testimonianza è stata poi amplificata dalla logica dei mass media. Sempre Mario Calabresi, nel suo libro Spingendo la notte più in là, osserva che «La disparità di trattamento tra chi uccise e chi venne ucciso è irreparabile, continua negli anni aggravata dal fatto che chi allora uccise scrive memorie, viene intervistato dalle tivù, partecipa a qualche film, occupa posti di responsabilità, mentre alla vedova di un appuntato nessuno va a chiedere come vive da allora senza marito, se ci sono figli che hanno avuto un’infanzia da orfani, se il tempo trascorso ha chiuso le ferite, il rimpianto, il dolore».

Per comprendere questa dittatura della testimonianza occorre guardare alla genesi del terrorismo nel nostro paese e comprendere l’origine di quella ampia simpatia ideologica di parte della pubblica opinione e dell’intellighenzia verso l’eversione contro l’ordinamento costituzionale dello Stato di cui ho accennato all’inizio.
Scrive il magistrato Marcello Maddalena, nel suo intervento agli atti del convegno Lotta al terrorismo:
«Non ci si deve dimenticare della cultura di quel periodo, degli insegnanti e degli ‘insegnamenti’ di quel periodo. Ricorderò ancora quanto, proprio in quegli ani bui, ebbe a dire al riguardo in un convegno di “operatori” italiani e tedeschi del diritto, un sociologo tedesco, Kielmansegg. (…) In quel convegno si parlava della RAF in Germania e delle B.R. in Italia ed una delle constatazioni emergenti da quel dibattito fu che il fenomeno del terrorismo rosso era assai più isolato in Germania che non in Italia, nel senso che in Italia si era creata, attorno al terrorismo rosso, una atmosfera culturale sostanzialmente favorevole o comunque “propiziatrice”: (...) una “moda” o una “corrente” culturale molto diffusa, soprattutto in ambienti intelletual-borghesi, tale da farvi allignare e prosperare il verbo dei terroristi.
Il nucleo di tutto questo andava ricercato – secondo Kielmansegg – in una concezione non solo non combattuta ma anzi sostanzialmente condivisa, secondo cui ogni bisogno individuale deve o dovrebbe venir soddisfatto; ed ogni bisogno “ingiustamente” insoddisfatto legittimerebbe una reazione anche al di là dei limiti della legge; una reazione violenta, quindi; quando proprio il primo insegnamento di una sana democrazia dovrebbe essere quello per cui la “democrazia” stessa si fonda su di una regola di convivenza civile a bisogni individuali insoddisfatti».

E’ quindi la cultura egemone di quel periodo a cavallo degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso che ha permesso nel nostro paese lo sviluppo del fenomeno terroristico in una dimensione incomparabile, ad esempio, con quanto avvenuto in Francia o in Germania. Parliamo infatti di oltre 200 morti e migliaia di ferimenti, rapimenti ed aggressioni senza contare il versante delle stragi fasciste e quello del terrorismo internazionale arabo.
E’ quella cultura che ha permesso ai gruppi terroristici di avere una vasta rete di simpatizzanti, oltre che di nuclei operanti: i loro fiancheggiatori sono stimati in 20.000 unità a fronte di 7.000 persone inquisite di cui 4.000 condannate con pene definitive per fatti di eversione ‘rossa’.
Ed è sempre quella cultura che, agevolando le opportunità di espressione della dittatura della testimonianza da parte degli ex terroristi, ha imposto al popolo italiano, che espresse viva e chiara la propria solidarietà verso le vittime di molti dei tragici frangenti offerti dagli eventi nazionali ed internazionali del secolo scorso, un atteggiamento di vile imbarazzo, se non di ambiguo mutismo quando si è trovato di fronte alle vittime del terrorismo interno di quei terribili anni.

Certamente, trovandomi qui a Parigi, non posso non chiedermi se dei cascami di quella cultura non siano qui precipitati a sorreggere tanta caritatevole pietà e comprensione verso i nostri terroristi latitanti. E quindi rivolgo a voi un interrogativo, parafrasando e sintetizzando l’articolo di un nostro letterato, Guido Ceronetti: come è possibile che un paese civile e laico, come la Francia, abbia e continui a offrire protezione a terroristi italiani, anche condannati con tre gradi di giudizio per reati di sangue, così ponendosi, nell'Europa d'oggi, come una enorme cattedrale pietosa che accoglie assassini e fornisce loro impunità, opportunità e patenti d'intellettuali?

Mi avvio a concludere osservando che la disamina di quella cultura fatta dal sociologo tedesco e riportata dal magistrato Maddalena, quella per cui “ogni bisogno ingiustamente insoddisfatto legittimerebbe una reazione anche al di là dei limiti della legge” ci riporta ad un tema che, in forma non giuridica, suona “ogni ribellione è priva di limiti e quindi è anche legittimata ad uccidere”, cioè l’esatto opposto della riflessione di Albert Camus, autore che so essere caro al vostro Movimento e le cui parole compaiono in ogni documento dell’Alleanza Internazionale Contro il Terrorismo.
Così oggi penso che occorra ribadire che la prima battaglia culturale contro il terrorismo passa per il concetto che ogni ribellione non può prescindere dal senso della misura, dal limite invalicabile costituito dalla vita degli altri, perché è la dismisura a giustificare il terrore: «Il bene assoluto e il male assoluto, se vi si mette quanto occorre di logica, esigono lo stesso furore».

Non certamente l’ONU e la sua Dichiarazione Universale dei Diritti Umani di cui oggi festeggiamo il 60° anniversario, ma sicuramente quella parte di cultura politica che ancora oggi idealizza, rendendoli assoluti, i diritti umani e civili, (e assai sensibile alle vittime dei crimi compiuti dafli Stati) non ha compreso che uccidere per un'ideologia è moralmente assi più riprovevole che farlo per futili motivi. Non si rende conto spesso che la ‘buona’ causa del terrorista o il suo diritto ad avere un ‘equo’ processo e trattamento penale, sono elementi il cui valore etico è ad di sotto di quello costituito dall’avere ucciso qualcuno, in nome di una realtà o un diritto che, idealizzato e reso assoluto, si pone in vero fuori da questa o da quello.
Alla dimensione tragica di chi muore ucciso da un pirata della strada o da un marito geloso, possiamo dire, parafrasando Hannah Arendt, che il terrorista - come lo Stato totalitario - con l'ideologia o la religione di turno, trasforma la vittima in un banale ingranaggio della macchina costituita dalla sua realtà artefatta, privandola non solo della vita, ma agli occhi di chi crede a quella realtà artefatta, anche della dimensione tragica che alla sua morte spetta.

Il corollario necessario è quindi che non esiste distinzione tra vittime innocenti e vittime colpevoli. Qualunque sia la presunta colpevolezza, la vittima in questione viene privata in ogni caso della possibilità di parlare e di difendersi: si trova nel dominio della dittatura della testimonianza.
Credo allora che sia un compito precipuo della nostra Alleanza Internazionale rivendicare il valore assoluto del dolore delle vittime, senza che nulla di esterno possa servire a relativizzarlo. Per utilizzare l’esortazione pronunciata da Vicenç Villatoro in occasione della 1° Giornata Europea delle Vittime del Terrorismo: «Che le vittime dei terrorismi da noi ritenuti ideologicamente più vicini o comprensibili non possano sembrarci meno vittime di coloro che sono morti o sono stati colpiti da terrorismi votati a cause che ci appaiono più lontane od odiose. L’ideologia dei terroristi non è una variabile per giudicare né la moralità del terrorismo – sempre nulla - né il dolore delle vittime».

mercoledì 8 ottobre 2008

La mostra “Anni di piombo. Le voci delle vittime per non dimenticare"

Conferenza stampa di presentazione della mostra “Anni di piombo. Le voci delle vittime per non dimenticare", a Palazzo Lascaris l'8 settembre 2008
Intervento del curatore, Luca Guglielminetti

Giovedì 11 settembre, anniversario dell’attacco alle torri gemelle, è stato proposto come prima giornata mondiale contro il terrorismo dall’alleanza internazionale contro il terrorismo: una rete di associazioni in Israele, Algeria, Francia, Irlanda, Spagna, Gran Bretagna e AIVITER per l’Italia.
In varie città del mondo si svolgeranno iniziative di natura diversa, per lanciare questa giornata come momento di mobilitazione rivolto alla società civile contro la cultura del terrore e in favore delle istanze e la memoria delle vittime.
Anche le Nazioni Unite domani, con il Simposio sulle vittime del terrorismo, per la prima volta si confrontano con il tema dell’importanza dell’attività e delle politiche di aiuto alle vittime del terrorismo e la nostra Associazione sarà a New York a seguire i lavori.

Sono partito da questi eventi perché in 4 anni di attività internazionale per AIVITER, ho potuto constatare come solo in Italia ci sia un carenza di attenzione verso le vittime, senza pari in Europa:
  • La Giornata in Memoria delle vittime italiane è stata istituita solo quest’anno, su proposta legislativa di Sabina Rossa e presentata l’anno scorso all’Assemblea di AIVITER qui a Torino: l’ultima presieduta da Maurio Puddu. Un fatto positivo, ma sul quale non è possibile osservare il ritardo trentennale.
  • Nel nostro paese la sindrome da stress post-traumatico, che affligge la maggior parte delle vittime e dei famigliari, ha iniziato ad essere curata con lo stesso ritardo trentennale dai fatti e non esiste, ancora oggi, un unità operativa di pronto intervento a sostegno delle vittime e dei loro famigliari in caso di nuovi attacchi terroristici.
  • Così come, nel vasto e ricco arcipelago del volontariato, non sono mai esistite associazioni di supporto alle vittime del terrorismo: la società civile, come la politica, le ha dimenticate e rimosse, come non è successo in nessun altro paese. In Italia, del resto, non esiste un memoriale, un luogo di memoria dei fatti che ricordi i caduti per terrorismo. Gli anni di piombo sono utilizzati, ancora oggi, some argomento di polemica politica tra opposte fazioni e non si è creato un comune sentire, una memoria condivisa dei fatti, come per altri periodi significativi della storia italiana.
La lista delle differenze negative con gli altri paesi potrebbe continuare su altri versanti, come le forme risarcitorie previste dalle varie legislazioni, o come la possibilità giuridica per le associazioni di vittime di costituirsi parte civile nei processi di terrorismo.

Tutti questi gap che rendono arretrato in modo incivile il nostro paese, sono la base della motivazione che ha reso necessaria ripensare la mostra che nel 1989 era stata inaugurata a Palazzo Cisterna e che è stata per 20 anni il solo strumento didattico ed informativo a disposizione di AIVITER.

L’11 settembre 2001 ha aperto il nuovo millennio ponendo il terrorismo al suo centro, tracciando una tragica scia di sangue che dagli Stati Uniti si è allungata prima a Madrid, e poi a Londra, cioè all’Europa. Anche in Italia qualcosa è cambiato: negli ultimi anni la pubblicistica, che per decenni aveva posto attenzione solo alle storie dei terroristi, ha iniziato ad ascoltare e raccontare anche l’altra parte: la voce delle vittime.
Proprio da questa pubblicistica, oltre che da quella prodotta da AIVITER in occasione dei convegni dal lei organizzati, dall’inizio della sua attività nel 1986, sono tratti i testi ed i contenuti di questa mostra.

 Il presidente del Consiglio regionale Davide Gariglio, il vicepresidente Roberto Placido delegato al Comitato Resistenza e Costituzione, il presidente dell'Associazione Italiana Vittime del terrorismo Dante Notaristefano ed il curatore della mostra Luca Guglielminetti responsabile delle relazioni internazionali dell'Associazione Italiana Vittime del terrorismo

giovedì 11 settembre 2008

Catalogo mostra "Anni di piombo. La voce delle vittime, per non dimenticare"

Catalogo dell'esposizione itinerante dell'Associazione Italiana Vittime del terreorismo AIVITER, intitolata "Anni di piombo. La voce delle vittime, per non dimenticare", realizzata con il contributo della Regione Piemonte nel 2009. A cura di Luca Guglielminetti in collaborazione con l'associazione Leon Battista Alberti; design e grafica della Kore Mutlimedia.

Catalogo Mostra "Anni di piombo. Per non dimenticare" by Luca Guglielminetti on Scribd


PRESENTAZIONE

Lo scopo di questa mostra, che aggiorna la prima versione realizzata nel 1989, è di carattere informativo e didattico sul terrorismo politico che ha connotato un ventennio della recente storia italiana. Per molti motivi il fenomeno è stato quasi rimosso, sia a livello di dibattito politico che di analisi storica e culturale, riscuotendo solo recentemente una certa attualità editoriale. E questo nonostante che l’attacco dell’11 settembre 2001 avesse anche aperto il nuovo secolo, mostrando a tutto il mondo il tragico impatto del terrorismo sulla storia. La chiave di lettura degli ‘anni di piombo’ proposta dalla mostra, quella della voce delle vittime, non deve essere considerata come una tardiva, e comunque insufficiente, forma di compensazione verso coloro i quali per lunghi decenni hanno patito oltre ad un generale silenzio, anche il disinteresse dello Stato. Essa è piuttosto una documentata rassegna dell’intolleranza politica, la rivisitazione della violenza politica in Italia: sul percorso della mostra è quindi possibile articolare studi e riflessioni didattiche per:

a) recuperare/rielaborare la memoria dei fatti, molti dei quali rischiano l’oblio totale;

b) incrementare il livello di informazione/conoscenza dei giovani sul fenomeno del terrorismo interno ed internazionale e le sue radici storiche e culturali; e, così, incoraggiare e accrescere nei giovani lo sviluppo di una coscienza critica verso il fenomeno del terrorismo e le diverse forme di violenza in politica.

LA MEMORIA DEI FATTI.

Oltre alle verità giudiziarie dei processi, di quanto approfondito storicamente sui fatti più eclatanti, quali il rapimento di Aldo Moro, e al di là di quanto non è stato possibile accertare, anche per via del segreto di Stato, i dati storici che ancora mancano sono molti e spesso tra i più basilari: primo tra tutti quello derivante dalla mancanza di elenchi esaustivi e attendibili delle vittime morte e ferite. Una delle primarie attività dell’Associazione italiana vittime del terrorismo è proprio questa: cercare di accertare chi sono le vittime. Nomi, date, fatti, biografie che in quegli anni terribili, quando gli attentati si susseguivano quasi quotidianamente, sono stati lacunosamente registrati sulle cronache di giornali magari per uno o pochissimi giorni, per poi sparire nell’oblio. Una delle attività didattiche che più aiuterebbero la ricostruzione della memoria dei fatti, sarebbe proprio quella di coinvolgere gli studenti in ricerche a partire dalle fonti giornalistiche sui fatti “minori”: quei morti e quei feriti di cui si conoscono a malapena i nomi e nulla più, o quei fatti “secondari” come attentati, ferimenti, aggressioni e rapimenti di cui in molti casi non conosciamo dati e protagonisti attendibili. Le scuole italiane, e i visitatori della mostra, se aiutassero l’associazione AIVITER a ricostruire il quadro delle vittime del terrorismo in Italia, restituendo loro dignità storica, oltre ad un utile lavoro di ricerca, offrirebbero agli studenti un modo pratico di affrontare l’educazione civica.

LE RADICI STORICHE E CULTURALI

Sull’origine storico-culturale del terrorismo, segnaliamo le plurime suggestioni che si possono cogliere nell’evoluzione del terrorismo a partire dalla sua prima affermazione nel corso della rivoluzione francese, che può essere analizzato sotto le lenti di diverse discipline: dalla storia delle dottrine politiche alla sociologia, dalla filosofia alla letteratura o discusso attraverso forse la più suggestiva riflessione sulla violenza politica che sia stata fino ad ora scritta: l’Uomo in rivolta di Albert Camus. «Il terrorismo moderno viene definito e battezzato da Robespierre, che è il primo a precisarne la funzione politica nell’accezione oggi ancora usata. Nel suo intervento alla Convenzione dice: “La spinta maggiore al governo popolare in tempo di guerra è data dalla virtù e dal terrore: il terrore senza virtù è fatale, e la virtù senza terrore è inerme”. Dopo la rivoluzione francese, tutto il terrorismo rivendicherà sempre sé stesso come strumento di giustizia». (Lucia Annunziata, ne Il Piemonte e Torino alla Prova del Terrorismo) Una giustizia assoluta che pretende di saldare nella storia umana la virtù pura e astratta all’agire reale e concreto dei cittadini. Anche Albert Camus parte dal 1793, da Saint-Just che esclama: “O la virtù o il terrore”. «Pretendendo di costruire la storia sopra un principio di purezza assoluta, la rivoluzione francese apre i tempi moderni…». La sua riflessone si snoda tra filosofia politica e letteratura fino agli Anni Cinquanta e indica la sola virtù media umanamente perseguibile, tra l’assoluto virtuoso e il cinico realismo, per cui, nell’agire politico «non importa la causa difesa, sarà inevitabilmente disonorata dal cieco massacro di un innocente». L’importante insegnamento del premio Nobel Camus è stato dimenticato per decenni, al pari delle vittime, ma resta fermo e incancellabile nella sua cocente attualità : «La misura c’insegna che occorre ad ogni morale una parte di realismo: la virtù pura è omicida; e che occorre una parte di morale ad ogni realismo: il cinismo è omicida». È la dismisura a giustificare il terrore: infatti «il bene assoluto e il male assoluto, se vi si mette quanto occorre di logica, esigono lo stesso furore». Una riflessione da sottoporre ai giovani sul loro modo di stare nella società, per cercare di prevenire il rischio che possano contrapporvisi in maniera violenta, anziché esercitare il diritto alla politica nel più completo rispetto della vita degli altri.

Il curatore, Luca Guglielminetti

martedì 9 settembre 2008

Presentazione della mostra "Anni di piombo. La voce delle vittime, per non dimenticare"

Conferenza stampa di presentazione della mostra “Anni di piombo. Le voci delle vittime per non dimenticare”, a Palazzo Lascaris l’8 settembre 2008

 







Intervento del curatore, Luca Guglielminetti


Giovedì 11 settembre, anniversario dell’attacco alle torri gemelle, è stato proposto come prima giornata mondiale contro il terrorismo dall’alleanza internazionale contro il terrorismo: una rete di associazioni in Israele, Algeria, Francia, Irlanda, Spagna, Gran Bretagna e AIVITER per l’Italia.
In varie città del mondo si svolgeranno iniziative di natura diversa, per lanciare questa giornata come momento di mobilitazione rivolto alla società civile contro la cultura del terrore e in favore delle istanze e la memoria delle vittime.
Anche le Nazioni Unite domani, con il Simposio sulle vittime del terrorismo, per la prima volta si confrontano con il tema dell’importanza dell’attività e delle politiche di aiuto alle vittime del terrorismo e la nostra Associazione sarà a New York a seguire i lavori.

Sono partito da questi eventi perché in 4 anni di attività internazionale per AIVITER, ho potuto constatare come solo in Italia ci sia un carenza di attenzione verso le vittime, senza pari in Europa:
  • La Giornata in Memoria delle vittime italiane è stata istituita solo quest’anno, su proposta legislativa di Sabina Rossa e presentata l’anno scorso all’Assemblea di AIVITER qui a Torino: l’ultima presieduta da Maurio Puddu. Un fatto positivo, ma sul quale non è possibile osservare il ritardo trentennale.
  • Nel nostro paese la sindrome da stress post-traumatico, che affligge la maggior parte delle vittime e dei famigliari, ha iniziato ad essere curata con lo stesso ritardo trentennale dai fatti e non esiste, ancora oggi, un unità operativa di pronto intervento a sostegno delle vittime e dei loro famigliari in caso di nuovi attacchi terroristici.
  • Così come, nel vasto e ricco arcipelago del volontariato, non sono mai esistite associazioni di supporto alle vittime del terrorismo: la società civile, come la politica, le ha dimenticate e rimosse, come non è successo in nessun altro paese. In Italia, del resto, non esiste un memoriale, un luogo di memoria dei fatti che ricordi i caduti per terrorismo. Gli anni di piombo sono utilizzati, ancora oggi, some argomento di polemica politica tra opposte fazioni e non si è creato un comune sentire, una memoria condivisa dei fatti, come per altri periodi significativi della storia italiana.
  • La lista delle differenze negative con gli altri paesi potrebbe continuare su altri versanti, come le forme risarcitorie previste dalle varie legislazioni, o come la possibilità giuridica per le associazioni di vittime di costituirsi parte civile nei processi di terrorismo.

    Tutti questi gap che rendono arretrato in modo incivile il nostro paese, sono la base della motivazione che ha reso necessaria ripensare la mostra che nel 1989 era stata inaugurata a Palazzo Cisterna e che è stata per 20 anni il solo strumento didattico ed informativo a disposizione di AIVITER.
    L’11 settembre 2001 ha aperto il nuovo millennio ponendo il terrorismo al suo centro, tracciando una tragica scia di sangue che dagli Stati Uniti si è allungata prima a Madrid, e poi a Londra, cioè all’Europa. Anche in Italia qualcosa è cambiato: negli ultimi anni la pubblicistica, che per decenni aveva posto attenzione solo alle storie dei terroristi, ha iniziato ad ascoltare e raccontare anche l’altra parte: la voce delle vittime.
    Proprio da questa pubblicistica, oltre che da quella prodotta da AIVITER in occasione dei convegni dal lei organizzati, dall’inizio della sua attività nel 1986, sono tratti i testi ed i contenuti di questa mostra.

    dal sito Aiviter