Nel quadro del 60° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, si è svolta la
Conferenza Internazionale
dal titolo
"Il Terrorismo e i Diritti Umani Universali"
Intervento di Luca Guglielminetti, responsabile delle relazioni internazionali AIVITERPorto i saluti e il ringraziamento da parte dell’Associazione Italiana Vittime del Terrorismo e del suo presidente, Dante Notaristefano, al “Mouvement pour la paix et contre le terrorisme” per l’invito a questa conferenza e a Huguette Magnis Chomsky per tutto il grande lavoro che sta svolgendo per tessere e fornire slancio ad una rete internazionale di associazioni sotto il comune denominatore della lotta al terrorismo.
Devo subito premettere che, pur parlando in questa sessione dedicata alle voce delle vittime, io non sono né vittima né parente di vittima del terrorismo, ma dal 2002 opero per l’associazione che qui rappresento nel settore della comunicazione, della didattica e delle relazioni internazionali. Quanto sottoporrò alla vostra attenzione è quindi una mia personale valutazione, maturata però a stretto contatto con le vittime e i loro problemi, e con la dirigenza dell’Associazione.
Tengo a specificarlo non solo per ordinaria precisione, ma perché la voce della vittime del terrorismo pretende un diritto alla parola che è di una natura più profonda di quello che usualmente appartiene ad ogni cittadino di un paese libero. Una profondità che proviene da un fatto di semplice evidenza: le vittime decedute non hanno voce, mentre quella dei superstiti feriti e dei familiari è incrinata a causa delle offese che con difficoltà si superano, come avviene purtroppo anche per le lesioni dei loro corpi e delle loro anime.
E’ proprio partendo da questa considerazione che prende avvio l’interrogativo che vorrei qui sottoporre a riflessione comune. Come è possibile riequilibrare la memoria dei fatti degli ex-terroristi, vivi e liberi di scrivere, con quella delle loro vittime, se queste sono morte o se la loro voce è resa labile o muta dall’offesa?
E’ vero che questo interrogativo probabilmente interessa essenzialmente i paesi, come la Spagna e l’Irlanda, oltre l’Italia, che hanno conosciuto un certo tipo di terrorismo: quello che poteva contare su una più o meno ampia simpatia ideologica di parte della pubblica opinione e dell’intellighenzia, ma l’ampliarsi delle comunità arabe in Europa potrebbe rendere il problema attuale anche nel contesto del terrorismo di matrice islamica.
Per meglio esplicare il problema della memoria riporto la riflessione di un filologo dell’Università di Torino che ha curato una recente pubblicazione sulle lettere dalla prigione dei terroristi di Aldo Moro, il presidente della Democrazia Cristiana e più volte Primo Ministro rapito e poi ucciso dalla Brigate Rosse nel 1978.
Miguel Gotor, in Lettere dalla prigionia, scrive:
«La memorialistica (degli ex terroristi) gode inoltre dello sgradevole privilegio che il “testimone integrale”, Aldo Moro, non può più dire la sua, poiché non è sopravvissuto al baratro in cui è stato gettato e ha così perduto per sempre il diritto alla parola. Perciò i suoi carcerieri di ieri possono continuare a tenerlo prigioniero oggi attraverso un uso strumentale della memoria. Un uso necessariamente funzionale ai bisogni attuali (giudiziari, politici, morali, psicologici, religiosi) di uomini liberi o in cerca di libertà, ma non alla ricostruzione storica di quanto avvenne, di un passato sul quale continuano a esercitare una monopolistica e paradossale dittatura della testimonianza».
Questa dittatura della testimonianza ha una conseguenza devastante per i sopravvissuti e i parenti, perché oggi sono loro e non gli ex terroristi in uno stato di prigionia. Prigionieri cui tocca la pena di ascoltare una periodica mistificazione dei fatti ad ogni articolo di stampa o libro pubblicato dai terroristi di ieri o dai loro ideologi.
Scriveva il fondatore e presidente della nostra associazione, Maurizio Puddu, gambizzato dalle Brigate Rosse sotto casa sua a Torino nel 1977: «… è terribilmente sgradevole ascoltare oggi nuove interpretazioni che nella realtà tendono a cambiare i fatti e il loro incontrovertibile significato».
Alle vittime del terrorismo e ai loro familiari non è quindi data la possibilità di guardare avanti: alle loro spalle troppe ombre velano una verità gravata dalla dittatura della testimonianza.
Quella stagione, comunemente definita anni di piombo, è così impossibilitata a consegnarsi alla storia «in quanto troppe verità mancano, troppe responsabilità non sono state accertate, molti attendono ancora giustizia e il dibattito resta inquinato dalle convenienze e dalle autodifese, anche quelle generazionali» scrive Mario Calabresi, figlio del commissario Luigi, ucciso a Milano nel 1972.
Questa dittatura della testimonianza è stata poi amplificata dalla logica dei mass media. Sempre Mario Calabresi, nel suo libro Spingendo la notte più in là, osserva che «La disparità di trattamento tra chi uccise e chi venne ucciso è irreparabile, continua negli anni aggravata dal fatto che chi allora uccise scrive memorie, viene intervistato dalle tivù, partecipa a qualche film, occupa posti di responsabilità, mentre alla vedova di un appuntato nessuno va a chiedere come vive da allora senza marito, se ci sono figli che hanno avuto un’infanzia da orfani, se il tempo trascorso ha chiuso le ferite, il rimpianto, il dolore».
Per comprendere questa dittatura della testimonianza occorre guardare alla genesi del terrorismo nel nostro paese e comprendere l’origine di quella ampia simpatia ideologica di parte della pubblica opinione e dell’intellighenzia verso l’eversione contro l’ordinamento costituzionale dello Stato di cui ho accennato all’inizio.
Scrive il magistrato Marcello Maddalena, nel suo intervento agli atti del convegno Lotta al terrorismo:
«Non ci si deve dimenticare della cultura di quel periodo, degli insegnanti e degli ‘insegnamenti’ di quel periodo. Ricorderò ancora quanto, proprio in quegli ani bui, ebbe a dire al riguardo in un convegno di “operatori” italiani e tedeschi del diritto, un sociologo tedesco, Kielmansegg. (…) In quel convegno si parlava della RAF in Germania e delle B.R. in Italia ed una delle constatazioni emergenti da quel dibattito fu che il fenomeno del terrorismo rosso era assai più isolato in Germania che non in Italia, nel senso che in Italia si era creata, attorno al terrorismo rosso, una atmosfera culturale sostanzialmente favorevole o comunque “propiziatrice”: (...) una “moda” o una “corrente” culturale molto diffusa, soprattutto in ambienti intelletual-borghesi, tale da farvi allignare e prosperare il verbo dei terroristi.
Il nucleo di tutto questo andava ricercato – secondo Kielmansegg – in una concezione non solo non combattuta ma anzi sostanzialmente condivisa, secondo cui ogni bisogno individuale deve o dovrebbe venir soddisfatto; ed ogni bisogno “ingiustamente” insoddisfatto legittimerebbe una reazione anche al di là dei limiti della legge; una reazione violenta, quindi; quando proprio il primo insegnamento di una sana democrazia dovrebbe essere quello per cui la “democrazia” stessa si fonda su di una regola di convivenza civile a bisogni individuali insoddisfatti».
E’ quindi la cultura egemone di quel periodo a cavallo degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso che ha permesso nel nostro paese lo sviluppo del fenomeno terroristico in una dimensione incomparabile, ad esempio, con quanto avvenuto in Francia o in Germania. Parliamo infatti di oltre 200 morti e migliaia di ferimenti, rapimenti ed aggressioni senza contare il versante delle stragi fasciste e quello del terrorismo internazionale arabo.
E’ quella cultura che ha permesso ai gruppi terroristici di avere una vasta rete di simpatizzanti, oltre che di nuclei operanti: i loro fiancheggiatori sono stimati in 20.000 unità a fronte di 7.000 persone inquisite di cui 4.000 condannate con pene definitive per fatti di eversione ‘rossa’.
Ed è sempre quella cultura che, agevolando le opportunità di espressione della dittatura della testimonianza da parte degli ex terroristi, ha imposto al popolo italiano, che espresse viva e chiara la propria solidarietà verso le vittime di molti dei tragici frangenti offerti dagli eventi nazionali ed internazionali del secolo scorso, un atteggiamento di vile imbarazzo, se non di ambiguo mutismo quando si è trovato di fronte alle vittime del terrorismo interno di quei terribili anni.
Certamente, trovandomi qui a Parigi, non posso non chiedermi se dei cascami di quella cultura non siano qui precipitati a sorreggere tanta caritatevole pietà e comprensione verso i nostri terroristi latitanti. E quindi rivolgo a voi un interrogativo, parafrasando e sintetizzando l’articolo di un nostro letterato, Guido Ceronetti: come è possibile che un paese civile e laico, come la Francia, abbia e continui a offrire protezione a terroristi italiani, anche condannati con tre gradi di giudizio per reati di sangue, così ponendosi, nell'Europa d'oggi, come una enorme cattedrale pietosa che accoglie assassini e fornisce loro impunità, opportunità e patenti d'intellettuali?
Mi avvio a concludere osservando che la disamina di quella cultura fatta dal sociologo tedesco e riportata dal magistrato Maddalena, quella per cui “ogni bisogno ingiustamente insoddisfatto legittimerebbe una reazione anche al di là dei limiti della legge” ci riporta ad un tema che, in forma non giuridica, suona “ogni ribellione è priva di limiti e quindi è anche legittimata ad uccidere”, cioè l’esatto opposto della riflessione di Albert Camus, autore che so essere caro al vostro Movimento e le cui parole compaiono in ogni documento dell’Alleanza Internazionale Contro il Terrorismo.
Così oggi penso che occorra ribadire che la prima battaglia culturale contro il terrorismo passa per il concetto che ogni ribellione non può prescindere dal senso della misura, dal limite invalicabile costituito dalla vita degli altri, perché è la dismisura a giustificare il terrore: «Il bene assoluto e il male assoluto, se vi si mette quanto occorre di logica, esigono lo stesso furore».
Non certamente l’ONU e la sua Dichiarazione Universale dei Diritti Umani di cui oggi festeggiamo il 60° anniversario, ma sicuramente quella parte di cultura politica che ancora oggi idealizza, rendendoli assoluti, i diritti umani e civili, (e assai sensibile alle vittime dei crimi compiuti dafli Stati) non ha compreso che uccidere per un'ideologia è moralmente assi più riprovevole che farlo per futili motivi. Non si rende conto spesso che la ‘buona’ causa del terrorista o il suo diritto ad avere un ‘equo’ processo e trattamento penale, sono elementi il cui valore etico è ad di sotto di quello costituito dall’avere ucciso qualcuno, in nome di una realtà o un diritto che, idealizzato e reso assoluto, si pone in vero fuori da questa o da quello.
Alla dimensione tragica di chi muore ucciso da un pirata della strada o da un marito geloso, possiamo dire, parafrasando Hannah Arendt, che il terrorista - come lo Stato totalitario - con l'ideologia o la religione di turno, trasforma la vittima in un banale ingranaggio della macchina costituita dalla sua realtà artefatta, privandola non solo della vita, ma agli occhi di chi crede a quella realtà artefatta, anche della dimensione tragica che alla sua morte spetta.
Il corollario necessario è quindi che non esiste distinzione tra vittime innocenti e vittime colpevoli. Qualunque sia la presunta colpevolezza, la vittima in questione viene privata in ogni caso della possibilità di parlare e di difendersi: si trova nel dominio della dittatura della testimonianza.
Credo allora che sia un compito precipuo della nostra Alleanza Internazionale rivendicare il valore assoluto del dolore delle vittime, senza che nulla di esterno possa servire a relativizzarlo. Per utilizzare l’esortazione pronunciata da Vicenç Villatoro in occasione della 1° Giornata Europea delle Vittime del Terrorismo: «Che le vittime dei terrorismi da noi ritenuti ideologicamente più vicini o comprensibili non possano sembrarci meno vittime di coloro che sono morti o sono stati colpiti da terrorismi votati a cause che ci appaiono più lontane od odiose. L’ideologia dei terroristi non è una variabile per giudicare né la moralità del terrorismo – sempre nulla - né il dolore delle vittime».
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