Nei paesi dell’Europa
centrale e del nord la prevenzione del terrorismo non è prassi esclusiva
dagli organi di polizia ed intelligence, ma si sono dotati negli ultimi
anni di strumenti e progetti che agiscono sul campo coinvolgendo
società civile, ONG, opinion maker politici e religiosi con partnership
pubblico /privato per attuare interventi nelle comunità a rischio, nelle
prigioni, nelle famiglie, nelle scuole.
Mentre
nel nostro paese, e più in generale nei paesi latini, il significato di
prevenzione è quello di reprimere l’atto terroristico in una delle fasi
che precedono la sua attuazione concreta di attentato, nei suddetti
paesi si investono risorse e intelligenze cercando di intervenire sulle
radici del fenomeno, cioè nelle fasi (e nei luoghi) del processo di
radicalizzazione precedenti a quelle finali in cui la violenta diventa
pratica concreta.
Pur
avendo la letteratura scientifica diversi modelli descrittivi del
processo di radicalizzazione, il punto è quello di utilizzare il
softpower per prevenire che i soggetti coinvolti giungano a concluderlo
rendendosi terroristi o estremisti violenti. In Italia non c’è
praticamente traduzione alcuna dei lavori di ricerca sul processo di
radicalizzazione. Nel dibattito italiano, il terrorismo è stato
analizzato e spiegato sotto moltissimi approcci (sociale, culturale,
ideologico, storico politico, psicologico, etc), ma mai come un percorso
che investe un individuo in una serie di fasi, oggettivamente
descrivibili. Sono quelle che riecheggiano le figure note di
‘simpatizzane’ e ‘fiancheggiatore’, ma la "zona grigia” l’abbiamo sempre
considerata un configurazione statica, quando invece, gli studi recenti
internazionali, stanno cercando di descriverla dinamicamente, come un
progressivo processo, dal quale però, con opportuni interventi, si può
provare a far retrocede gli individui coinvolti.
Si
possono quindi attuare sia interventi mirati sui soggetti, sia su
gruppi nei luoghi e nelle comunità a rischio (dalle prigioni ai centri
raccolta di immigrati). Si possono fare scelte politiche consapevoli dei
rischi di accentuare o meno la radicalizzazione in contesti di
movimenti antagonisti, come il NOTAV (si veda Il processo di radicalizzazione violenta del movimento No Tav).
Si possono disporre interventi di formazione per sensibilizzare il
personale delle forze dell’ordine e quello civile, militare e del terzo
settore, quello che per esempio gestisce le operazioni legate al flusso
migratorio in Italia (si veda Dopo il caso Delnievo, la prevenzione verso il rientro dei combattenti in Siria).
Si possono investire risorse per agevolare il dialogo inter-culturale e
inter-religioso nelle città e nei quartieri multietnici. Si possono
attuare programmi di intervento nelle scuole e nelle famiglie. Prima di tutto però occorre la consapevolezza culturale di questo approccio alla prevenzione e poi la volontà politica.
Il 9 settembre 2011, Cecilia Malmström, Commissaria per gli Affari interni, inaugurò a Bruxelles “la
rete di sensibilizzazione al problema della radicalizzazione, per
sostenere gli Stati membri nel loro impegno volto a migliorare la
sensibilizzazione al problema e a trovare modi per contrastare l'ideologia e la propaganda degli estremisti”. La RAN (Radicalisation Awareness Network)
ha lo scopo di individuare le buone pratiche e promuovere lo scambio di
informazioni ed esperienze, tra i soggetti che a vario titolo si
occupano professionalmente dei diversi aspetti della radicalizzazione
violenta, cercando di affrontare il problema della radicalizzazione
prima che questa si trasformi in estremismo violento.
In
questi tre anni ho diretto uno dei gruppi di lavoro di tale rete
europea (RAN VVT), senza che il mio Stato membro, cioè l’Italia, a
livello del suo Ministero degli Interni, abbia mai dato un segno di
interesse verso l’attività e i lavori svolti in questo contesto. Due
sono state le conferenze “high level” organizzate dalla
Commissione Europea, con RAN e Stati membri: nel primo caso la ministra
Cancellieri si limitò ad augurami buon lavoro; nel secondo caso, nel
giugno scorso, alla vigilia della presidenza di turno italiana
dell’Unione Europea, il sottosegretario agli Interni italiano che doveva
concludere i lavori non si è fatto né vedere né sostituire.
Del resto, se andiamo a leggere uno dei risultati della RAN, cioè la raccolta “Collection of approaches and practices to prevent and counter radicalisation”,
possiamo notare l’impronta geopolitica descritta all’inizio: Regno
Unito e paesi centro-nord europei dominano nella progettualità del
softpower contro la radicalizzazione.
Eppure
non mancano buone prassi anche in Italia, ma si tratta di casi isolati
che attendono di essere valorizzati e messi in rete …quando
consapevolezza e volontà politica sopraggiungeranno. Sperando che ciò
non accada solo dopo il versamento di sangue italiano sul suolo
italiano.
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