sabato 18 ottobre 2014

Softpower nella prevenzione del terrorismo: il divario europeo

Nei paesi dell’Europa centrale e del nord la prevenzione del terrorismo non è prassi esclusiva dagli organi di polizia ed intelligence, ma si sono dotati negli ultimi anni di strumenti e progetti che agiscono sul campo coinvolgendo società civile, ONG, opinion maker politici e religiosi con partnership pubblico /privato per attuare interventi nelle comunità a rischio, nelle prigioni, nelle famiglie, nelle scuole.
Mentre nel nostro paese, e più in generale nei paesi latini, il significato di prevenzione è quello di reprimere l’atto terroristico in una delle fasi che precedono la sua attuazione concreta di attentato, nei suddetti paesi si investono risorse e intelligenze cercando di intervenire sulle radici del fenomeno, cioè nelle fasi (e nei luoghi) del processo di radicalizzazione precedenti a quelle finali in cui la violenta diventa pratica concreta.
Pur avendo la letteratura scientifica diversi modelli descrittivi del processo di radicalizzazione, il punto è quello di utilizzare il softpower per prevenire che i soggetti coinvolti giungano a concluderlo rendendosi terroristi o estremisti violenti. In Italia non c’è praticamente traduzione alcuna dei lavori di ricerca sul processo di radicalizzazione. Nel dibattito italiano, il terrorismo è stato analizzato e spiegato sotto moltissimi approcci (sociale, culturale, ideologico, storico politico, psicologico, etc), ma mai come un percorso che investe un individuo in una serie di fasi, oggettivamente descrivibili. Sono quelle che riecheggiano le figure note di ‘simpatizzane’ e ‘fiancheggiatore’, ma la "zona grigia” l’abbiamo sempre considerata un configurazione statica, quando invece, gli studi recenti internazionali, stanno cercando di descriverla dinamicamente, come un progressivo processo, dal quale però, con opportuni interventi, si può provare a far retrocede gli individui coinvolti.
Si possono quindi attuare sia interventi mirati sui soggetti, sia su gruppi nei luoghi e nelle comunità a rischio (dalle prigioni ai centri raccolta di immigrati). Si possono fare scelte politiche consapevoli dei rischi di accentuare o meno la radicalizzazione in contesti di movimenti antagonisti, come il NOTAV (si veda Il processo di radicalizzazione violenta del movimento No Tav). Si possono disporre interventi di formazione per sensibilizzare il personale delle forze dell’ordine e quello civile, militare e del terzo settore, quello che per esempio gestisce le operazioni legate al flusso migratorio in Italia (si veda Dopo il caso Delnievo, la prevenzione verso il rientro dei combattenti in Siria). Si possono investire risorse per agevolare il dialogo inter-culturale e inter-religioso nelle città e nei quartieri multietnici. Si possono attuare programmi di intervento nelle scuole e nelle famiglie. Prima di tutto però occorre la consapevolezza culturale di questo approccio alla prevenzione e poi la volontà politica.
Il 9 settembre 2011, Cecilia Malmström, Commissaria per gli Affari interni, inaugurò a Bruxelles “la rete di sensibilizzazione al problema della radicalizzazione, per sostenere gli Stati membri nel loro impegno volto a migliorare la sensibilizzazione al problema e a trovare modi per contrastare l'ideologia e la propaganda degli estremisti”. La RAN (Radicalisation Awareness Network) ha lo scopo di individuare le buone pratiche e promuovere lo scambio di informazioni ed esperienze, tra i soggetti che a vario titolo si occupano professionalmente dei diversi aspetti della radicalizzazione violenta, cercando di affrontare il problema della radicalizzazione prima che questa si trasformi in estremismo violento.
In questi tre anni ho diretto uno dei gruppi di lavoro di tale rete europea (RAN VVT), senza che il mio Stato membro, cioè l’Italia, a livello del suo Ministero degli Interni, abbia mai dato un segno di interesse verso l’attività e i lavori svolti in questo contesto. Due sono state le conferenze “high level” organizzate dalla Commissione Europea, con RAN e Stati membri: nel primo caso la ministra Cancellieri si limitò ad augurami buon lavoro; nel secondo caso, nel giugno scorso, alla vigilia della presidenza di turno italiana dell’Unione Europea, il sottosegretario agli Interni italiano che doveva concludere i lavori non si è fatto né vedere né sostituire.
Del resto, se andiamo a leggere uno dei risultati della RAN, cioè la raccolta “Collection of approaches and practices to prevent and counter radicalisation”, possiamo notare l’impronta geopolitica descritta all’inizio: Regno Unito e paesi centro-nord europei dominano nella progettualità del softpower contro la radicalizzazione.
Eppure non mancano buone prassi anche in Italia, ma si tratta di casi isolati che attendono di essere valorizzati e messi in rete …quando consapevolezza e volontà politica sopraggiungeranno. Sperando che ciò non accada solo dopo il versamento di sangue italiano sul suolo italiano.


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