La rassegna critica sugli studi di psicologia del terrorismo condotta da John Horgan, tradotta in italiano da Edra nella revisione del 2014, evidenzia un quadro che lo stesso Autore definisce 'sconfortante', anche se meno di quanto paventato nella sua prima edizione del 2005: "le attuali analisi sul terrorismo rimangono a breve termine, contingenti, spesso carenti di dettagli, politicizzate e molto specifiche".
Se in una analoga revisione negli anni '80 del XX secolo, la ricerca accademica sul terrorismo veniva descritta "come una realtà di piccola scala, addirittura periferica, nella maggior parte delle università" (Wilkinson, 1986), la mole di studi e ricerche, successivi all'11 settembre 2011, non ha migliorato la situazione dal punto di vista qualitativo. Errori di metodo, di raccolta, verifica ed interpretazione dei dati, mancata ricerca sul campo, hanno reso i risultati scarsi e poco utilizzabili per gli attori dell'antiterrorismo: decisori politici e forze di sicurezza e intelligence.
"La tendenza degli studiosi di concentrarsi esclusivamente sulla propria disciplina" e quindi la difficoltà di integrare diverse conoscenze per un approccio multidisciplinare di un fenomeno complesso, è stato un ulteriore fattore dell'insuccesso dei risultati ottenuti, secondo Horgan, che però giustamente sottolinea, nel primo capitolo, quello che è uno dei punti più critici: l'ambiguità dello stesso termine terrorismo, con le difficoltà a trovare una comune definizione che lo circoscriva chiaramente.
Una delle 'deviazioni' che l'Autore giudica più dannose è stata quella della ricerca che si è indirizzata sulla radicalizzazione con l'intento di definire profili e modelli predittivi che spiegassero "chi è il terrorista". Horgan propone invece un approccio indirizzato al comportamento terroristico che analizzi le tre fasi del modello IED (Involvement, Engagement e Disengangement) tenendo conto dei vari ruoli in seno alle organizzazioni eversive (compresi quelli che non necessariamente prevedono la pratica delle violenza) e focalizzandosi su comportamenti, dinamiche e relazioni di gruppo.
"Sono le analisi comportamentali a offrire spunti più proficui alla ricerca", sostiene l'Autore che però resta comunque giustamente scettico sul fatto che si possano individuare 'fattori di rischio' non generici e quindi dotati di valore predittivo.
Horgan presenta molti spunti di ricerca, compresi alcuni che parrebbero suonare paradossali come la domanda "perché così tanti non si dedicano al terrorismo?", ma anche sfide al mondo della politica, il cui processo decisionale "è quasi sempre completamente inefficace nella gestione del terrorismo".
"Siamo ben consapevoli di come certe risposte ai movimenti terroristici, in realtà, aumentino il supporto al terrorismo contro lo Stato, ma i governi ritengono che l'unico trattamento da riservare ai terroristi sia quello meritato dai codardi, altrimenti temerebbero di apparire disumani e insensati."
E prosegue con con raro e lucido pragmatismo: "noi sappiamo già come, sotto molti aspetti, probabilmente non dovremmo rispondere al terrorismo". La questione di "come combattere i terroristi" in ultima analisi è una questione di priorità da assegnare ai propri obiettivi: "Che cosa volgiamo fare? Se l'eliminazione dei terroristi è un obiettivo fondamentale per un governo, allora le implicazioni diventano ovvie, come stiamo osservando su larga scala con il programma droni".
Un testo quindi molto interessante, sul quale viene l'impulso di portare la critica anche oltre i confini esplorati dal professore americano.
In questa sede mi concentro su una sola osservazione che, proprio dal punto di vista empirico, mi pare costituisca un limite di conoscenza delle politiche, comprese quelle ufficialmente promosse dagli USA, almeno ai tempi di Obama.
Nell'ultimo capitolo l'Autore solleva una critica, che sappiamo connessa alla ricerca sulla radicalizzazione violenta, alle politiche di "contrasto all'estremismo violento" (CVE): "non è chiaro il modo esatto in cui tale obiettivo possa essere raggiungo o che cosa venga di fatto prevenuto".
Nel momento in cui scriveva (2013) l'Autore forse non aveva ancora conoscenza della quantità di programmi e progetti attuati in molti paesi di prevenzione/contrasto degli estremismi violenti.
Pur riconoscendo che è assai difficile misurarne l'efficacia, queste politiche segnano comunque, se non una inversione, una cambiamento di paradigma nella lotta al terrorismo.
Se infatti gli studi sulla radicalizzazione hanno prodotto, da una parte, una serie di strumenti discutibili per monitorare e valutare il grado di involvement dei soggetti a rischio (ad esempio nelle prigioni); dall'altra, hanno prodotto la consapevolezza che la risposta securitaria da sola sia insufficiente ad affrontare il fenomeno, ammettendo che un eccesso, per non dire abuso, di uso della forza sia controproducente: fatto sul quelle Horgan sicuramente converebbe.
In altri termini, se un esito degli studi sulla radicalizzazione sono stati strumenti di Risk Assessment indirizzati esclusivamente ai soggetti a rischio di terrorismo di matrice jihadista, sulla cui efficacia è lecito dubitare; le politiche di CVE si sono rivolte, nel maggior parte dei casi e dei paesi, a tutti gli estremismi violenti, cioè di ogni matrice, con un approccio multi-agenzia che investe anche soggetti pubblici e privati esterni al mondo della sicurezza, per intervenire a livello locale prima che i reati vengano commessi. Politiche e programmi, che almeno nei migliori dei casi, hanno un portato politico che spesso sfugge, ma che Horgan credo potrebbe apprezzare, rappresentato dal fatto che si affrontino i conflitti politici apertamente, prima che intervengano cattivi maestri, reclutatori e quanti altri alimentano la deriva violenta di una causa.
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