Non il disagio sociale: molti terroristi erano ben integrati
da La Spampa del 11/04/2016
di Lorenzo Vidino
washington
Dopo gli attentati di Bruxelles, esattamente come quelli di Parigi, l’attenzione pubblica si è focalizzata sui quartieri a forte presenza musulmana delle città del Centro-Nord Europa, dalle banlieue parigine alla più centrale, ma altrettanto problematica Molenbeek. È stato detto che mancanza di integrazione, disoccupazione, criminalità e marginalizzazione sono le cause della radicalizzazione degli attentatori e di ampie sacche delle locali popolazioni musulmane. In realtà, per quanto questi fattori sociologici non vadano ignorati, un’analisi approfondita del background dei jihadisti europei e svariati studi sulla radicalizzazione effettuati negli ultimi anni portano a conclusioni diverse.
Il vice-primo ministro del Belgio Jan Jambon lo ha accennato in una recente intervista, affermando che solo un sesto dei jihadisti belgi proviene da famiglie che si trovano sotto la soglia di povertà. Non sorprende pertanto che il regista degli attentati di Parigi, Abdelhamid Abaaoud, avesse frequentato un prestigioso liceo privato di Bruxelles e avesse un padre che possedeva una piccola catena di negozi di abbigliamento. E se alcuni dei membri del network di Molenbeek avevano precedenti penali (cosa di per sé non sintomatica di mancata integrazione), altri avevano frequentato l’università e avevano buone carriere.
La situazione è simile in Francia. Dounia Bouzar, direttrice del Centro per la Prevenzione del Settarismo Islamico, ha recentemente pubblicato i risultati di un suo studio su 160 famiglie francesi che l’avevano contattata chiedendole aiuto per combattere la radicalizzazione dei loro figli. Il dato più eclatante: due terzi delle famiglie facevano parte della classe media. Inoltre, secondo un altro studio, il 23% dei jihadisti francesi in Siria sono convertiti, molti dei quali provenienti da buone famiglie del ceto medio e, in alcuni casi, dalle élites francesi. Un recente studio condotto dall’università Queen Mary di Londra su un amplio campione di giovani musulmani britannici ha dimostrato che i soggetti più a rischio di radicalizzazione sono giovani dai diciotto ai vent’anni ben istruiti e provenienti da famiglie benestanti che parlano inglese a casa: paradossalmente, quindi, più sono integrati più sono propensi alla radicalizzazione.
È quindi palese che fattori socio-economici, per quanto a volte rilevanti, non siano la chiave di volta per capire i processi di radicalizzazione. D’altronde, se fossero solo la povertà e la mancanza di integrazione a causare radicalismo, come mai solo una piccola, statisticamente insignificante parte della popolazione musulmana europea che vive in una situazione di disagio si radicalizza? Non ogni giovane musulmano di Molenbeek si è unito all’Isis. E come si spiega anche che molti casi di radicalizzazione esistono anche in paesi considerati (giustamente) modelli di integrazione quali Canada e Stati Uniti? Come si spiega, per esempio, la radicalizzazione dell’attentatore di San Bernardino, Syed Rizwan Farook, nato e cresciuto in ambiente middle class californiano, con una laurea e un buon lavoro? In realtà più della sociologia è forse la psicologia che ci aiuta a capire chi e perché diventa estremista. Il punto che sembra unire tutti questi soggetti è che tutti paiono alla ricerca qualcosa: un ideale, un senso di appartenenza, un’avventura. Come dice Ed Husein, un ex militante islamista nato e cresciuto a Londra, i jihadisti europei spesso «sono disillusi, non emarginati. Molti sono ben istruiti e con una buona famiglia. Ma cercano tutti dei valori o una ragione per la quale combattere, una causa per la quale poter morire». La mancata integrazione e la vita in un quartiere malfamato posso aiutare a creare questa disillusione, ma da soli non offrono una spiegazione concreta per illustrare un fenomeno così complesso come la radicalizzazione.
Il vice-primo ministro del Belgio Jan Jambon lo ha accennato in una recente intervista, affermando che solo un sesto dei jihadisti belgi proviene da famiglie che si trovano sotto la soglia di povertà. Non sorprende pertanto che il regista degli attentati di Parigi, Abdelhamid Abaaoud, avesse frequentato un prestigioso liceo privato di Bruxelles e avesse un padre che possedeva una piccola catena di negozi di abbigliamento. E se alcuni dei membri del network di Molenbeek avevano precedenti penali (cosa di per sé non sintomatica di mancata integrazione), altri avevano frequentato l’università e avevano buone carriere.
La situazione è simile in Francia. Dounia Bouzar, direttrice del Centro per la Prevenzione del Settarismo Islamico, ha recentemente pubblicato i risultati di un suo studio su 160 famiglie francesi che l’avevano contattata chiedendole aiuto per combattere la radicalizzazione dei loro figli. Il dato più eclatante: due terzi delle famiglie facevano parte della classe media. Inoltre, secondo un altro studio, il 23% dei jihadisti francesi in Siria sono convertiti, molti dei quali provenienti da buone famiglie del ceto medio e, in alcuni casi, dalle élites francesi. Un recente studio condotto dall’università Queen Mary di Londra su un amplio campione di giovani musulmani britannici ha dimostrato che i soggetti più a rischio di radicalizzazione sono giovani dai diciotto ai vent’anni ben istruiti e provenienti da famiglie benestanti che parlano inglese a casa: paradossalmente, quindi, più sono integrati più sono propensi alla radicalizzazione.
È quindi palese che fattori socio-economici, per quanto a volte rilevanti, non siano la chiave di volta per capire i processi di radicalizzazione. D’altronde, se fossero solo la povertà e la mancanza di integrazione a causare radicalismo, come mai solo una piccola, statisticamente insignificante parte della popolazione musulmana europea che vive in una situazione di disagio si radicalizza? Non ogni giovane musulmano di Molenbeek si è unito all’Isis. E come si spiega anche che molti casi di radicalizzazione esistono anche in paesi considerati (giustamente) modelli di integrazione quali Canada e Stati Uniti? Come si spiega, per esempio, la radicalizzazione dell’attentatore di San Bernardino, Syed Rizwan Farook, nato e cresciuto in ambiente middle class californiano, con una laurea e un buon lavoro? In realtà più della sociologia è forse la psicologia che ci aiuta a capire chi e perché diventa estremista. Il punto che sembra unire tutti questi soggetti è che tutti paiono alla ricerca qualcosa: un ideale, un senso di appartenenza, un’avventura. Come dice Ed Husein, un ex militante islamista nato e cresciuto a Londra, i jihadisti europei spesso «sono disillusi, non emarginati. Molti sono ben istruiti e con una buona famiglia. Ma cercano tutti dei valori o una ragione per la quale combattere, una causa per la quale poter morire». La mancata integrazione e la vita in un quartiere malfamato posso aiutare a creare questa disillusione, ma da soli non offrono una spiegazione concreta per illustrare un fenomeno così complesso come la radicalizzazione.
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