Nella Relazione sulla politica dell'informazione per la sicurezza del 2015 predisposta della nostra intelligence, leggiamo "Anche
in Italia, il fenomeno dei foreign fighters, inizialmente con numeri
più contenuti rispetto alla media europea, è risultato in costante
crescita, evidenziando, quale aspetto di particolare criticità,
l’auto-reclutamento di elementi giovanissimi, al termine di processi di
radicalizzazione spesso consumati in tempi molto rapidi e ad insaputa
della stessa cerchia familiare."
Chiediamoci se è veramente così. I processi di radicalizzazione individuali sono invisibili alla famiglia?
Già nella medesima Relazione del 2008 si era evidenziato il fatto che nelle carceri "è
stata rilevata un'insidiosa opera di indottrinamento e reclutamento
svolta da 'veterani', condannati per appartenenza a reti terroristiche,
nei confronti di connazionali detenuti per spaccio di droga o reati
minori." Recentemente, poi, Gennaro Migliore, sottosegretario alla giustizia con delega per detenuti e trattamento, ha sottolineato: “In
Italia abbiamo un problema di recidiva e un problema incipiente di
radicalizzazione all’interno delle carceri: sapete tutti che Salah
Abdeslam, il terrorista che è stato arrestato, responsabile della strage
al Bataclan, era stato reclutato in carcere e che oggi il reclutamento e
la radicalizzazione in carcere sono fenomeni da tenere sotto stretto
controllo.”
Allora può seguire una seconda domanda: i processi di radicalizzazione individuali sono invisibili nelle carceri?
La
risposta è che il processo di radicalizzazione violenta non è
invisibile ai soggetti che ruotano intorni alle figure coinvolte:
la famiglia, ma anche docenti, personale penitenziario, polizia di
prossimità, se adeguatamente preparati potrebbero valutare i rischi e
prevenirlo ad uno stadio anteriore di quando il soggetto si trova a
pianificare e cercare di attuare attentati. Ma essere in grado di valutare i rischi, e gestirli (Risk Management),
richiede che il problema della radicalizzazione esca dall’alveo
securitario e di intelligence in cui giace ancora oggi nel nostro paese.
Da
anni, in molti paese, politiche e programmi nazionili di prevenzione
della radicalizzazione dell’estremismo violenti sono stati attivati. I
principali fattori di rischio per l'estremismo violento sono stati
organizzati in un protocollo di valutazione strutturata del rischio (Violent Extremism Risk Assessment; VERA), cui seguono programmi di de-radicalizzazione.
Utilizzando
quel protocollo, il governo francese, per esempio, l'anno scorso dopo i
fatti di Charlie Hebdo a Parigi, ha lanciato una campagna di
comunicazione e un numero verde di assistenza per le famiglie che
temevano per la radicalizzazione "jihadista" dei loro figli.
Anche l’Italia ha provato a seguire le orme dei cugini
francesi, ma si è dovuta fermare di fronte al problema di aprirsi al
mondo esterno agli apparati di sicurezza.
Chi dovrebbe infatti rispondere ad un numero verde di assistenza alle famiglie?
Nessuna
madre, per quanto preoccupata di un figlio che cambia repentino
abitudini e temendone la partenza verso scenari di guerra, giungerebbe a
denunciarlo agli organi di polizia. Solo del personale
professionalmente preparato ed indipendente potrebbe aiutare le famiglie
in modo efficace, sapendo come intervenire e potendo godere della
fiducia necessaria.
Il medesimo problema si pone nelle
carceri. Chi e come interviene una volta che siano monitorati i rischi
di radicalizzazione violenta dei carcerati?
La collaborazione tra
amministrazioni pubbliche e società civile è infatti il fondamento per
intervenire nel processo di radicalizzazione prima che crei dei
terroristi. Ma finché non si apre un vero dibattito
interno al paese sulle sfide poste dalla potenziale radicalizzazione dei
nostro giovani resteremo ad una visione carente dei fenomeni che
abbiamo di fronte, altamente rischiosa in quanto sta producendo politiche incerte se non controproducenti che potrebbero, a loro volta, contribuire ad un peggioramento dei rischi complessivi.
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