- Dal catalogo “binario 18: #stayhumanart” promosso da Legal@rte
Le ricadute sull’Europa dello scenario di guerre e flussi
migratori è sotto gli occhi di tutti e prendono le forme e i nomi di una serie
di rischi diversi: la stessa tenuta dell’Unione europea, quella dei suoi
trattati (Schengen) e dei suoi valori comuni; la coesione sociale dei singoli
Stati membri, minacciata da xenofobia, nazionalismi e populismi che raggiungono
sempre più alti livelli politici; e la minaccia terroristica con annesse le
varie forme di radicalizzazione violenta che coinvolgono le comunità
musulmane.
Mi soffermo qui solo su l’ultimo di questi rischi, la cui
prevenzione però ha ricadute positive su gli altri due.
Nella lotta al terrorismo, il significato di prevenzione è
stato quasi sempre associato alla
repressione dell’atto eversivo in una delle fasi che precedono la sua
attuazione concreta di attentato: dunque una prassi esclusiva degli organi di
polizia ed intelligence.
Dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, sono iniziate a
comparire ricerche, analisi e poi progetti e pratiche finalizzate ad
intervenire sulle radici del fenomeno terroristico, cioè nelle fasi di quello
che viene definito il processo di radicalizzazione violenta, precedenti a
quelle finali in cui i soggetti disumanizzano le vittime del proprio odio e la
violenza diventa pratica tanto cieca quanto concreta.
Non si nasce terroristi, né si tratta di pazzi e di
emarginati sociali allo sbando. Dall’analisi delle loro bibliografie sono
invece stati tratti dei modelli che ci descrivono la pluralità di concause e
gli stadi successivi per cui un soggetto si radicalizza fino a giungere ad
unirsi ad un gruppo terrorista. Da questi modelli sono stati tratti approcci e
pratiche atti alla prevenzione di tale processo nei gruppi a
rischi e di de-radicalizzazione sui singoli soggetti.
I programmi che si occupano di questa forma di prevenzione
sono noti a livello internazionale come politiche di CVE: contrasto
all’estremismo violento, il presupposto di partenza è che “l'intelligence,
la forza militare e l'applicazione della legge da sole non risolvono - e quando
abusato possono invece esacerbare - il problema dell'estremismo violento"(1).
I tre pilastri delle sue azioni sono:
- Disseminare sensibilizzazione sui processi di radicalizzazione violenza e di reclutamento;
- Contrastare le narrazioni estremiste, come la propaganda jihadista, con la promozione on-line di contro-narrazioni promosse dalla società civile;
- Valorizzare gli sforzi delle comunità locali che intervengono consentendo di interrompere il processo di radicalizzazione prima che un individuo si impegni in attività criminali.
- Disseminare sensibilizzazione sui processi di radicalizzazione violenza e di reclutamento;
- Contrastare le narrazioni estremiste, come la propaganda jihadista, con la promozione on-line di contro-narrazioni promosse dalla società civile;
- Valorizzare gli sforzi delle comunità locali che intervengono consentendo di interrompere il processo di radicalizzazione prima che un individuo si impegni in attività criminali.
Nei paesi del nord d’Europa tali politiche di prevenzione
vedono le istituzioni pubbliche coinvolgere la società civile, le ONG, gli
opinion maker politici e religiosi, con partnership pubblico /privato, per
attuare, ormai da un decennio, interventi nelle comunità a rischio, nelle
prigioni, nelle famiglie, nelle scuole con strumenti educativi, psicologi,
sociali e mediatici.
Dal 2011 la Commissione Europea, Direzione Generale Affari
Interni, ha lanciato la RAN, Radicalisation
Awareness Network (2), creando una rete di operatori che a vario titolo
lavorano sul campo, per raccogliere le migliori pratiche e trasformare i
migliori approcci di contrasto alla radicalizzazione violenta in politiche per
gli Stati membri. I paesi latini del Sud Europa sono però in grave ritardo su
questo terreno. La Francia solo dopo i fatti di Charlie Hebdo del gennaio 2015,
ha iniziato ad investire massicciamente nelle politiche e nei programmi di CVE.
Mentre l’Italia stenta ancora, con l’eccezione di qualche progetto pilota.
Eppure, queste politiche che intervengono sul pensiero
critico dei giovani di fronte alla propaganda su Internet, sulla resilienza
delle comunità multi-religiose e multi-etniche delle nostre città, nell’informazione
alle famiglie che temono per i propri figli in fuga verso scenari di guerra, o
nelle prigioni per evitare che siano fucine di terroristi, oltre a prevenire la
radicalizzazione, producono benefici indiretti per gli altri due rischi esposto
all’inizio: rafforzano la coesione sociale dei nostri paesi e diffondono i
valori comuni europei di cittadinanza attiva, democratica, plurale e
non-violenta.
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