Il tema della sicurezza si declina
nel pubblico dibattito in due forme: o come parole tecniche di esperti o
come divaricazione manichea tra primato della libertà e quello della
protezione.
A
seconda del campo di applicazione, il primato delle dell’una o
dell’altro assume valenze politiche opposte: di fronte la guerra al
terrorismo è di sinistra difendere le libertà individuali, là dove è di
destra limitarle in nome delle sicurezza dei cittadini; mentre di fronte
agli incidenti sul lavoro è di destra la libertà di imprendere senza
troppi vincoli, là dove è di sinistra limitarla per salvaguardare la
salute dei lavoratori.
In
altri campi, la parola è affidata al linguaggio, apparentemente neutro,
degli specialisti delle varie forme di sicurezza: il tecnico di
sicurezza militare o di intelligence, oppure il tecnico di sicurezza
informatica o di impianti industriali che presentano scenari e soluzione
dei quali solo una minoranza di pubblico non sprovveduto coglie il
senso politico sotteso.
Intorno
alla sicurezza si gioca in vero una delle partite più importanti del
discorso pubblico, in quanto essa sottende una delle più potenti
emozioni umane, comune a tutti i cittadini-elettori: la paura con i suoi
derivati di ansia, stress e preoccupazione.
L’approccio
ideologico è quello oggi dominante con le sue metafore semplicistiche:
di fronte a migranti e rifugiati si invocano o i muri o i ponti.
Buonismo imbelle e cieco egoismo si fronteggiano sui molti temi legati
alla sicurezza portando spesso le discussioni all’immobilismo o a scelte
irrazionali dai risultati disastrosi.
Se
la politica si presenta spesso lenta nell’affrontare i mutamente della
società dell’informazione, quando si tratta di sicurezza, aggiunge il
termine emergenza e accelera verbalmente e spesso concretamente i suoi
atti. La politica reagisce cioè come la fisiologia umana ha insegnato al
cervello: di fronte al pericolo serve una reazione immediata difensiva,
senza pensarci troppo. Ma la paura diventa quasi sempre un pericolo per
coloro che la provano.
Questa
dinamica, ci spiegano l’antropologia e le neuroscienze, è legata alle
necessità di sopravvivenza delle nostra specie quando l’uomo viveva in
tutt’altro contesto ambientale. Funzione bene ancora oggi di fronte ai
disastri naturali, dove un’efficiente protezione civile è sufficiente,
ma serve uno sforzo “contro-natura”, tanto logico quanto razionale, per
invertire la tempistica, o almeno rallentare il tempo delle decisioni,
per evitare alla paura di giocare il ruolo di sentimento dominante nello
scenario politico quando ci troviamo di fronte ai pericoli sociali.
Quelli con i tratti umani del terrorista, del migrante, dello “zingaro” o
quelli criminali della gang, del racket, dell’imprenditore senza
scrupoli, o di forze di sicurezza inadeguate, sistemi giudiziari
inefficaci o sistemi di sorveglianza invasivi.
La
società civile dovrebbe allora farsi carico di creare spazi dove
rallentare il tempo della riflessione intorno ai temi della sicurezza,
per favorire scambi, discussioni, proposte e progetti che abbiano quanto
più possibile un fondamento razionale, laico e scientifico, che
risponda alle esigenze specifiche nel territorio nella consapevolezza
dei dibattiti e delle pratiche europee e internazionali sui temi della
sicurezza e della sua difficile relazione con le libertà e le forme di
legalità.
Servirebbero
quindi spazi di pubblica discussione e proposta la cui attrezzatura
metodologica sia quella di socializzare i linguaggi specialistici,
confrontare le prassi e gli approcci, privilegiare gli interventi di
prevenzione delle cosiddette “emergenze”, rendere partecipe la
cittadinanza su politiche che non possono essere più relegate ai
populismi mediatici o alle segrete stanze degli organi di sicurezza.
Nessun commento:
Posta un commento