In termini manzoniani potremmo descrivere questo processo come un succedersi di gruppi sociali che sono stati individuati dall’inizio della pandemia come untori del corona-virus: i cinesi in Italia, i runner nei parchi, i giovani della movida, i no-vax. La differenza è che ora ai no-green-pass si sta aggiungendo una qualifica politica e ideologica. Nei primi commenti successivi all’assalto alla sede delle CGIL a Roma emergeva una evidente tendenza ad accomunare tutti i manifestanti no-green-pass con l’etichetta di “fascisti”. Se dovesse capitare qualche atto violento di segno opposto, analoghi commenti giungerebbero parimenti, col risultato di continuare a polarizzare e spingere ad estremizzare la propria mobilitazione, verso la violenza, anche parte dei manifestanti pacifici.
Quanto sopra dovrebbe indurre tutti a letture meno superficiali e semplicistiche delle piazze che in queste settime si oppongono all’obbligo del green pass vaccinale. Siamo in una specie di dopo-guerra e come tale dovrebbero agire i decisori politici. Anche se suona assai stonato per chi l’ha pronunciata per primo, il termine “pacificazione” non è completamente inappropriato nell’attuale contesto, nel quale iniziamo ad ascoltare una terminologia - “autunno caldo”, “strategia delle tensione”, “opposti estremismi” - di un periodo storico che è stato prodromo di diversi tentativi eversivi costati oltre 400 vite.
In molti paesi europei la situazione è analoga alla nostra e forse sarebbe utile volgere lo sguardo ai rimedi raccomandati dalla Commissione europea. In due conferenze di alto livello del Radicalisation Awarenes Network (RAN), che da 10 anni elabora politiche e pratiche di prevenzione, nei giorni scorsi sono stati analizzati anche i rischi di radicalizzazione sorti dal risentimento contro le misure governative anti-Covid, così come la frammentazione delle ideologie che lo supportano e le dinamiche di utilizzo dei social media per spandere le teorie del complotto sul web, mobilitando attori isolati o gruppi estremisti. Per affrontare questi rischi, che possono condurre a forme di violenza eversiva, in queste conferenze è rieccheggiato un obbiettivo, tra gli altri: “De-escalation of polarised discourse”, agire in modo contrario alla pericolosa escalation del discorso polarizzato al quale stiamo assistendo in Italia.
Prediamo l’esempio di un argomento, anche costituzionalmente sostanziato, come lo scioglimento dell’organizzazioni neo-fascista Forza Nuova. Al netto delle strumentalizzazioni partitiche che periodicamente incrociano richieste e veti sulla chiusura dei centri sociali di estrema destra e sinistra, la questione sotto il profilo della prevenzione, e anche dell’intelligence, è assai semplice. Chiudere una realtà politica per decreto significa correre il rischio di spingere i suoi militanti in clandestinità; in una dimensione, cioè, in cui la violenza è assai più avanzata ed eversiva di quella di piazza. Lasciarli aperti, pur sapendo che da lì giungono o possono arrivare atti illegali, permette alle forze dell’ordine di monitorare agevolmente i loro militanti, i quali, alla luce del sole, di solito non superano quella soglia di violenza che dai danni alle cose passa alla vita delle persone.
Insomma, sarebbe bene bypassare i retaggi infetti e mai sopiti di antifascismo e anticomunismo anche solo per una ragion pratica: prevenire è assai meglio che curare successivamente. E prevenire è in primis smettere di soffiare sul fuoco con le parole.
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