"Aprile di solito è un buon mese
nel New England, l’inverno allenta la sua presa e appaiono i primi segni
della primavera. Ma non quest’anno. Boston è stata sconvolta
dall’attentato alla maratona del 15 aprile e dalle tensioni della
settimana successiva. Molti miei amici erano al traguardo quando le
bombe sono esplose. Altri abitano vicino al posto in cui è stato
catturato Dzhokhar Tsarnaev, il secondo attentatore. Il giovane agente
di polizia Sean Collier è stato ucciso davanti al mio ufficio. A noi
occidentali privilegiati non succede spesso di vedere cose che molti
altri, per esempio gli abitanti di un villaggio dello Yemen, vivono ogni
giorno." Scrive Noam Chomsky commentando l'attentato alla maratona di Boston.
A confermare questa osservazione dell'illustre insegnante di linguistica al Mit di Boston, sono giunte un mese dopo da Londra le parole dal 28enne Michael Adebolajo, il cittadino britannico di origine nigeriana convertitosi all’Islam nel 2001, che dopo l’omicidio del soldato Lee Rigby, si confessa con le mani sporche di sangue davanti ad una telecamera dichiarando: «Mi scuso con le donne che hanno dovuto assistere a questo oggi, ma nella nostra terra le donne devono vedere le stesse cose». (guarda il video)
La giustificazione dei fatti da parte del professor Chomsky e del terrorista Adebolajo collimano: l'orrore visivo osservabile nel villaggio dello Yemen o nelle terre della Nigeria giustifica la reazione (terroristica) che vuole presentare il medesimo raccapricciante spettacolo nelle città dell'Occidente.
Questo argomenta conferma l'assunto che il terrorismo si prefigge di raccontare le sue storie non attraverso lo sguardo delle vittime, ma attraverso quello degli spettatori.*
Nel racconto del terrorista è importante rimarcare che la vittima non è quella appena ammazzata, nel caso di Londra visibile a terra pochi metri dietro Michael Adebolajo mentre spiega di fronte ad una telecamera il motivo del suo gesto agli spettatori, ma è il suo gruppo 'etnico' che rappresenza le istanze di altre vittime.
Il 'trucco' narrativo presupposto di tali storie risiede nel fatto che istintivamente il lettore di Chomsky e l'ascoltatore di Adebolajo reputino:
1) che le violenze nello Yemen e nella Nigeria siano responsabilità tutte occidentali.
2) Che l'inizio della spirale delle violenza risieda nel 'peccato originale' dell'Occidente che dal colonialismo arriva alla guerra al terrorismo lanciata da Bush jr. dopo l'11/9.
3) Che la vittima più debole abbia qualche ragione a cercare una vendetta disperata.
Chi si prende la fatica di controllare le origini e le cause delle violenze in Yemen e in Nigeria?
Chi conosce a fondo la storia di quei due paesi lontani?
Chi si chiede se l'intervento occidentale nei paesi arabi o africani alimenti in ogni caso più violenza, o se sia peggiore la soluzione del non intervento, come in Siria?
Il paradosso è che il vecchio professore americano abbia ceduto alla logica narrativa in cui è caduto il giovane terrorista britannico. La logica per cui non la vittima reale, ma un gruppo 'etnico' che in nome delle vittima si 'vittimizza' e cerca un nemico, vero o presunto che sia, al quale chiedere conto e sul quale vendicarsi.
La stessa logica, seppur con storia capovolta, è stata utilizzata da Bush quando ha vittimizzato l'America del post 11 settembre e ha lanciato la guerra al terrorismo. Opzione che non era certo quella espressa dai sopravvissuti e dai familiari dei 3000 morti degli attentati, ma del quale il presidente USA ha voluto farsi interprete, alimentando così, a sua volta, una barbarica spirale di vendette e contro-vendette (oltre ad aver minato il fragile terreno delle garanzie e delle libertà democratiche).
Tale logica è stata finalmente spezzata dal presidente Obama pochi giorni fa, dichiarando terminata la guerra al terrorismo, ma di fatto era già cambiata durante il suo primo mandato nelle politiche di antiterrorismo della sua amministrazione. Come quando, ad esempio, sui siti web jihadisti il Dipartimento di Stato aveva sostituito la propaganda delle loro narrazioni con i dati sulle loro vittime, dai quali si comprendeva bene che i loro attentati terroristici colpivano essenzialmente solo altri mussulmani.
Il terrorismo si contrasta dunque restando sul terreno dello Stato di diritto, ma dal punto di vista narrativo, oltre che etico e civile, opponendo allo sguardo avvilito e terrorizzato dello spettatore, quello della vittima 'vera': quella di cui possono farsi interpreti solo i sopravvissuti o i familiari, e nessun altro (!): sia questi un capo dello stato, un esimio professore, o un giovane radicalizzato.
A confermare questa osservazione dell'illustre insegnante di linguistica al Mit di Boston, sono giunte un mese dopo da Londra le parole dal 28enne Michael Adebolajo, il cittadino britannico di origine nigeriana convertitosi all’Islam nel 2001, che dopo l’omicidio del soldato Lee Rigby, si confessa con le mani sporche di sangue davanti ad una telecamera dichiarando: «Mi scuso con le donne che hanno dovuto assistere a questo oggi, ma nella nostra terra le donne devono vedere le stesse cose». (guarda il video)
La giustificazione dei fatti da parte del professor Chomsky e del terrorista Adebolajo collimano: l'orrore visivo osservabile nel villaggio dello Yemen o nelle terre della Nigeria giustifica la reazione (terroristica) che vuole presentare il medesimo raccapricciante spettacolo nelle città dell'Occidente.
Questo argomenta conferma l'assunto che il terrorismo si prefigge di raccontare le sue storie non attraverso lo sguardo delle vittime, ma attraverso quello degli spettatori.*
Nel racconto del terrorista è importante rimarcare che la vittima non è quella appena ammazzata, nel caso di Londra visibile a terra pochi metri dietro Michael Adebolajo mentre spiega di fronte ad una telecamera il motivo del suo gesto agli spettatori, ma è il suo gruppo 'etnico' che rappresenza le istanze di altre vittime.
Il 'trucco' narrativo presupposto di tali storie risiede nel fatto che istintivamente il lettore di Chomsky e l'ascoltatore di Adebolajo reputino:
1) che le violenze nello Yemen e nella Nigeria siano responsabilità tutte occidentali.
2) Che l'inizio della spirale delle violenza risieda nel 'peccato originale' dell'Occidente che dal colonialismo arriva alla guerra al terrorismo lanciata da Bush jr. dopo l'11/9.
3) Che la vittima più debole abbia qualche ragione a cercare una vendetta disperata.
Chi si prende la fatica di controllare le origini e le cause delle violenze in Yemen e in Nigeria?
Chi conosce a fondo la storia di quei due paesi lontani?
Chi si chiede se l'intervento occidentale nei paesi arabi o africani alimenti in ogni caso più violenza, o se sia peggiore la soluzione del non intervento, come in Siria?
Il paradosso è che il vecchio professore americano abbia ceduto alla logica narrativa in cui è caduto il giovane terrorista britannico. La logica per cui non la vittima reale, ma un gruppo 'etnico' che in nome delle vittima si 'vittimizza' e cerca un nemico, vero o presunto che sia, al quale chiedere conto e sul quale vendicarsi.
La stessa logica, seppur con storia capovolta, è stata utilizzata da Bush quando ha vittimizzato l'America del post 11 settembre e ha lanciato la guerra al terrorismo. Opzione che non era certo quella espressa dai sopravvissuti e dai familiari dei 3000 morti degli attentati, ma del quale il presidente USA ha voluto farsi interprete, alimentando così, a sua volta, una barbarica spirale di vendette e contro-vendette (oltre ad aver minato il fragile terreno delle garanzie e delle libertà democratiche).
Tale logica è stata finalmente spezzata dal presidente Obama pochi giorni fa, dichiarando terminata la guerra al terrorismo, ma di fatto era già cambiata durante il suo primo mandato nelle politiche di antiterrorismo della sua amministrazione. Come quando, ad esempio, sui siti web jihadisti il Dipartimento di Stato aveva sostituito la propaganda delle loro narrazioni con i dati sulle loro vittime, dai quali si comprendeva bene che i loro attentati terroristici colpivano essenzialmente solo altri mussulmani.
Il terrorismo si contrasta dunque restando sul terreno dello Stato di diritto, ma dal punto di vista narrativo, oltre che etico e civile, opponendo allo sguardo avvilito e terrorizzato dello spettatore, quello della vittima 'vera': quella di cui possono farsi interpreti solo i sopravvissuti o i familiari, e nessun altro (!): sia questi un capo dello stato, un esimio professore, o un giovane radicalizzato.
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*Si veda: Terrorism, Media, and the Ethics of Fiction a cura di Philipp Schweighauser, Peter Schneck, p. 42