Quasi tutti gli aspetti sono stati trattati
di fronte alla morte del volontario Giovanni Lo Porto, rapito tra
Pakistan e Afghanistan il 19 gennaio del 2012 e morto a gennaio in un
raid condotto da un drone USA.
Beppe Servegnini sul Corriere della Sera
ha scritto che “Giovanni Lo Porto è morto quattro volte. Quando è stato
rapito, quando è stato dimenticato, quando è stato colpito, quando la
notizia della sua uccisione è stata nascosta.” Ovvero: “dalla ferocia
disumana dei rapitori, dalla nostra distrazione, da una bomba dal cielo,
dal segreto militare”.
L’aspetto che
vorrei sottolineare è quello della dimenticanza, o della nostra
disattenzione, perché è questo il fattore che ha fatto di Lo Porto “un
sequestrato di serie B”, come ha detto il padre Vito.
Il rango della vittima ha nelle solidarietà che gli viene espressa la miglior misura.
Chi,
come il sottoscritto vive a Torino, ha potuto negli ultimi mesi
constatare la diversità, anche quantitativa, di solidarietà verso le
vittime parigine di Chalie Hebdo e quelle dell’attentato al Bardo di
Tunisi. La mobilitazione a livello di comunicazione e di partecipazione
in piazza alla prima è stata assai più estesa per il primo attentato che
non per il secondo, nonostante questo contasse vittime italiane e
torinesi.
Così nei rapimenti. Negli anni
pregressi abbiamo visto le mobilitazioni in favore delle vittime
illustri, dalla Giuliana Sgrena a Domenico Quirico. E parimenti
l’assenza di mobilitazioni per volontari come Giovanni Lo Porto, o
lavoratori, come gli ingeneri rapiti e uccisi in Nigeria da Boko Haram
nel 2012 e 2013: Franco Lamolinara e Silavano Travisan.
E’ naturale che accada tutto ciò?
Si potrebbe dire che è normale che una vittima legata al mondo della comunicazione, grazie all’appoggio del suo entourage, sia fornita di maggiore appoggio, solidarietà e mobilitazione.
Si potrebbe dire che è normale che una vittima legata al mondo della comunicazione, grazie all’appoggio del suo entourage, sia fornita di maggiore appoggio, solidarietà e mobilitazione.
Ma
forse occorrerebbe partire da un altro punto di vista e domandarsi:
come mai la società civile non si è dotata di strumenti atti a garantire
un livello equanime di appoggio, solidarietà e mobilitazione a tutti i
rapiti dal terrorismo internazionale?
Naturalmente
in altri paesi europei esistono associazione che svolgono un ruolo di
appoggio ai rapiti e ai loro familiari. Organizzazioni che oltre a
svolgere un ruolo di sostegno legale e psicologico alle famiglia,
fronteggino anche il problema di tenere alta la mobilitazione in favore
di quei rapiti, che per ruolo e professione non godono di “buona
stampa”.
Certamente si tratta di un
ruolo anche delicato, specie di fronte agli ordini di silenzio stampa
che arrivano puntuali dall’unità di crisi della Farnesina che gestisce
le trattative. Ordini che però sono stati spesso elusi da testate che si
trovavano propri collaboratori coinvolti in rapimenti. Ordini che
talvolta vanno elusi per garantire una attenzione e un impegno maggiore
da parte della stessa Unità di crisi.
Allora,
giustamente ci si scandalizza dell’Aula parlamentare semideserta
venerdì pomeriggio scorso di fronte alla relazione del Ministro degli
Esteri, Paolo Gentiloni, che relazionava sul caso Lo Porto, ma anche la
società civile, capace in altre occasione di mobilitazioni per le cause
anche le più lontane ed inusitate, dimostra una propria debolezza e una
incapacità di esprimere empatia verso chi subisce certe forme di
violenza politica.
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