sabato 22 febbraio 2020

Dai discorsi d'odio al disimpegno dai gruppi estremisti violenti




Nell’ottica di chi si occupa di contrasto e prevenzione dell’estremismo violento, la dimensione dei discorsi di incitamento all’odio rappresenta un ampio sottoinsieme che interseca i fenomeni di radicalizzazione violenta.

Le recenti politiche, promosse in molti paesi e dalle organizzazioni internazionali, che vanno sotto il nome di contrasto e prevenzione dell’estremismo violento (P/CVE) sono finalizzate a promuove gli sforzi degli attori, pubblici e privati, delle comunità locali che intervengono consentendo di interrompere il processo di radicalizzazione violenta o prima che un individuo si impegni in attività criminali, o dopo per agevolarne il disimpegno dalla violenza e il reinserimento sociale.

Nate a seguito degli attentati dell’11 settembre, negli USA, e quelli di Londra del 7 luglio 2005, in Europa, tali politiche, e i relativi programmi e strategie, focalizzate per lungo tempo sulle forme di radicalizzazione jihadista, si sono opportunamente evolute, in particolare nel nord Europa, verso un approccio che intervenisse verso ogni forma di estremismo violento, cioè al di là della matrice ideologica/religiosa che alimenta i gruppi organizzati che esercitano violenza.

In questo contesto, il problema dei discorsi di incitamento all’odio, così come le propagande dei gruppi estremisti, sono un’espressione di quella che viene definita radicalizzazione cognitiva, o coinvolgimento (involvement) in una “causa”. Si tratta della prima fase di un processo cui possono seguire, per un’esigua minoranza di soggetti, la radicalizzazione comportamentale, o mobilitazione (engangement) in un gruppo estremista violento, e poi, nella maggioranza dei casi, la fase di de-radicalizzazione, o disimpegno (disengangement) o uscita (exit) dal gruppo.

I confini tra chi esercita, individualmente o in gruppo, violenza verbale nei discorsi d’odio, e chi arriva poi ad esercitare quella fisica, o a farsi reclutare in un gruppo che la esercita, sono sicuramente complessi: variano le forme e i gradi di violenza fisica, così come i contesti geo-politici nei quali la si esercita, che possono richiedere valutazioni di legittimità, come nei casi di insurrezioni contro regimi illiberali. Senza entrare nel merito del difficile equilibrio tra il monopolio dell’uso della forza dello Stato e lo Stato di diritto che mitiga gli abusi del primo, quello che sappiamo per certo è che il fenomeno della radicalizzazione si presenta sempre come reciproco, tra gruppi polarizzati o parti in conflitto, come ad esempio ci ricorda Tzvetan Todorov (2016) quando scrive che: «Oggi l’islamofobia e il jihadismo si rafforzano vicendevolmente». Quello che sappiamo è che solo un’esigua minoranza giunge dal discorso d’odio al reclutamento e all’esercizio della violenza: per la grande maggioranza maschi di età compresa tra l’adolescenza e il decennio dei 20 anni.

Come è possibile intervenire con questi giovani?

Se ACSMOS col progetto “Contro l’odio” ha tentato di fornire una risposta ai problemi legati alla presenza di odio sul web, ora Benvenuti in Italia, con il progetto “Exit Europe” prova ad intervenire sul campo sostenendo un percorso di “uscita” di chi, avendo aderito ad un gruppo estremista, voglia uscirne prima di far danni a se stesso e ad altri. Un progetto europeo che vede l’esperienza dei paesi nordici approdare in Italia con l'obiettivo di contribuire anche nel nostro paese al disimpegno dei giovani da gruppi estremisti violenti attraverso un programma integrato di de-radicalizzazione e reinserimento sociale, che vede la collaborazione locale di istituzioni ed altre organizzazioni della società civile.

Luca Guglielminetti, coordinatore e valutatore locale del progetto europeo “Exit Europe”

Si veda: 
 

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