Ricordare stanca, il libro di Massimo Coco, figlio del
Procuratore Generale di Genova Francesco ucciso con la scorta dalla
Brigate Rosse a Genova nel 1976, si presenta certamente anomalo nel
panorama della letteratura dei figli degli anni
'70, e in particolare quella che investe le vittime del terrorismo. Tale
natura particolare, sono certo che assicuri a questo libro vita
difficile, per non dire ostracismo, in un paese dove la polemica
culturale è ingessata da vent'anni sugli stessi binari morti e dove sui
temi del terrorismo vige un conformismo ferreo tra le parti. I
supplementi dei quotidiani e le riviste letterarie si guarderanno bene
dal recensirlo, anche se in vero Ricordare stanca chiude un ciclo di
produzione editoriale: quello aperto nel 2006 da Giovanni Fasanella, con
il suo I silenzi degli innocenti.
L'anomalia del libro si articola, da una parte, nell'approccio irriverente e sarcastico dell'autore verso quanto è stato scritto ed agito dai colleghi di disgrazia, in particolare dagli altri figli autori di libri e interpreti del ruolo di vittime del terrorismo; dall'altra nell'approccio laico, al confine con il paganesimo, verso i cosiddetti "ex terroristi" e "cattivi maestri".
Nel Capito 2 troviamo una caustica descrizione del modo in cui si articola il mondo delle vittime, superstiti e familiari, del terrorismo: "…la prima Grande Classificazione Organica di quella specie animal-umana denominata appunto "Vittime del Terrorismo". Un Victimarium che, parafrasando la tassonometria dantesca con i suoi 'gironi' e 'bolge', introduce la prima questione politicamente scorretta, con la macro divisione tra vittime di serie A (le VIPtime) e quelle di serie B (le vittime).
Al ciclo aperto da Fasanella con i ritratti paritetici ed orizzontali di una selezione di vittime del terrorismo e delle stragi, cui veniva restituita la parola dopo decenni di silenzio e sudditanza alla dittatura testimoniale degli ex terroristi, era seguita la produzione delle opere dei singoli: i figli o le figlie dei vari Calabresi, Tobagi, Rossa, Moro… Giunge adesso il libro di Massimo Coco a chiudere il ciclo, assumendosi la responsabilità di fare un bilancio agro-dolce di tale produzione editoriale con relativi risvolti pratici: le carriere dei singoli, ma soprattutto la loro diffusa attitudine a predicare e praticare la pacificazione con gli ex terroristi.
Su questo terreno si innesta la seconda peculiare anomalia del libro: la rivendicazione del diritto alla rabbia verso cotanta barbaria. Diritto tanto più reclamato in virtù del fatto che i responsabili materiali dell'omicidio del padre, Francesco Coco, non sono stati mai identificati dalla giustizia. Diritto al quale segue la legittima ricerca di vendetta: o quella civile costituita dalla applicazione della giustizia, o quella etica rappresentata dalla facoltà di cogliere ogni occasione per menare schiaffi morali ai cattivi maestri che ancora rivendicano la giustezza della causa per cui presero, od invitarono a prendere, in mano le armi.
Una vendetta, quella di Massimo Coco, che accoglie la cultura civile della non violenza ma che, nel contesto di un vita di musicista classico e rispettoso della Forza del destino, si configura come richiamo ad una laicità dai toni pagani che mal sopporta la retorica buonista, fatta di amore e pacificazione veicolati a piene mani e lacrime dalla VIPtime.
In conclusione, tutti i libri scritti dai figli delle vittime del terrorismo degli anni di piombo costituiscono in primis un omaggio affettuoso nei confronti dei padri uccisi e degli agli membri di famiglie spezzate (le madri vedove, i fratelli). Essi però formano un corpus letterario che nella sua pluralità di voci, sarebbe bene considerare tutte dotate di valore morale proprio ed autonomo. Un paese civile non avrebbe difficoltà ad accogliere tali differenze: uno ipocritamente cattolico, invece resterà scandalizzato.
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