Tutti possono osservare gli atti di solidarietà nell'immediatezza
dell'attacco tanto dello Stato che del corpo sociale colpito
dall'attacco terroristico, ma è poco osservato, se non negletto, quanto
occorre nei tempi successivi, brevi e lunghi che siano.
Prendiamo spunto dai fatti recenti di
Parigi, dove due mesi fa, nel corso di tre giorni, tre terroristi hanno
seminato sangue nello sgomento generale a livello mondiale, uccidendo 17
persone e ferendone 11. Che cosa ricordiamo oggi? Le immagini dei
telegiornali e dei media, "Charlie Hebdo" e le sue vignette; le
manifestazioni di solidarietà dell'11 gennaio in tutta la Francia e in
giro per il mondo con la diffusione virale dei cartelli "Je suis
Charlie"; l'eco del dibattito sul diritto di satira e di offesa delle
religioni. Qualcuno rammenterà ancora il nome dei fratelli Kouachi e di
Coulibaly, o il nome delle vittime più famose, come il disegnare
Wolinsky e il direttore Charbonnier.
Nel
frattempo le vittime hanno iniziato un percorso poco conosciuto dal
giorno dopo le imponenti manifestazioni in loro solidarietà.
Innanzi
tutto occorre precisare che le vittime non sono solo i morti e feriti.
Ci sono gli illesi, i testimoni diretti dei fatti nella redazione del
giornale, gli ostaggi del supermarket Kosher e della tipografia
nell'epilogo di quei tre giorni, le cui conseguenze per lo shock subito
si articolano in molteplici patologie. Ho incontrato pochi giorni fa il
proprietario della tipografia a Dammartin-en-Goele, figlio di immigrati
italiani dal Molise, Michel Catalano che mi ha raccontato come da quel
giorno abbia perso il sonno: la morte gli è passata assai vicina.
Lo
stesso per i feriti e i familiari, cioè le vittime indirette, dei morti
e dei feriti sui quali le conseguenze del fatti si ripercuotono in
termini psicologici, sociali ed economici che possono arrivare a
travalicare le generazioni. Pensiamo al caso italiano di Piazza Fontana:
nella battaglia per la memoria e le verità è coinvolto ormai un nipote,
Matteo Dendena, della vittima diretta, Giuseppe.
Premesso
che l'obiettivo di un attacco terroristico è sempre la società civile,
sia che questo si articoli nella modalità indifferenziata della strage, o
in quale selettiva degli obiettivi da colpire, la questione che voglio
evidenziare è la risposta dello Stato e della società verso le vittime
nel corso del tempo.
Tutti possono
osservare gli atti di solidarietà nell'immediatezza dell'attacco tanto
dello Stato che del corpo sociale colpito dall'attacco terroristico, ma è
poco osservato, se non negletto, quanto occorre nei tempi successivi,
brevi e lunghi che siano.
Restiamo nella
Francia di "Carlie" e osserviamo cosa capita a livello di Stato e di
società, verso le vittime dirette o indirette che siano. Il governo
francese ha varato diverse forme di sostegno e riparazione dei danni
subiti dalle vittime, ma queste non avrebbero affetto alcuno se non ci
fosse un "corpo intermedio" che le rende fruibili ai familiari delle
vittime e ai sopravvissuti. Questo corpo intermedio è l'associazione
francese AfVT.org. In questi due mesi tale associazione sta facendo
esattamente quanto in Italia svolge l'associazione Aiviter da 10 anni,
cioè da quando è stata varata una legge specifica per le vittime del
terrorismo, la n. 206 del 2004. Le associazione delle vittime rendono
cioè noti ed applicabili quei diritti che altrimenti, solo garantiti
sulla carta, sarebbero pressoché nulli ai più quando privi
dell'intermediazione che li rende conosciuti e praticabili nei suoi
spesso complessi iter burocratici.
E la
società civile? Restando in Francia, dopo due mesi dagli attentati,
sicuramente c'è una attenzione, al di là di timori per nuovi attacchi,
verso le vittime. La si può misurare anche quantitativamente nelle
vendite dei numeri successivi di Carlie Hebdo. Ma, come capita sempre,
si insinuano già una serie di fattori che minano la solidarietà verso le
vittime. Tra paure, sospetti e teorie cospiratorie, il terrorismo si
giova del carattere equivoco del suo agire, comunicare e legittimassi e
delle frequenti strumentalizzazioni dirette o indirette, nazionali o
internazionali, che gli girano attorno.
Considerazioni
del tipo: "le vittime se la sono se la sono cercata", oppure: "il
governo non ha prevenuto l'attacco quindi forse era interessato a subire
un attacco per giustificare le sue politiche interne e internazionali",
sono reazioni che provocano il crollo della solidarietà, della fiducia
nelle istituzioni, della coesione sociale e, nelle vittime, una seconda
vittimizzazione.
Accade così che le
associazione - che svolgono il ruolo sussidiario di far applicare i
diritti delle vittime, sopra citato, oltre quello di salvaguardarne la
memoria - si trovano presto prive di aiuto e sostegno dalla società
civile. Non una raccolta fondi a loro favore, non una associazione di
simpatizzanti (cioè non costituita da vittime) che si ponga a loro
supporto o servizio. Esistono miriadi di associazione per le cause più
disparate, comprese verso le vittime di conflitti e genocidi, ma non una
verso le vittime di quel particolare conflitto che è il terrorismo.
Questo
comporta che le associazioni delle vittime del terrorismo debbano
sostenersi con la loro proprie forze: quelle dei loro membri, familiari
di vittime e di sopravvissuto, al massimo di qualche ente privato o
istituzione pubblica locale o europea. Chiedere un sostegno diretto ai
rispettivi governi è una scelta politicamente improponibile: in Italia
abbiamo coinvolgimenti diretti di parti dello Stato nelle stragi
fasciste e dei ruoli ambigui nell'affrontare il terrorismo rosso; in
Francia, fino a pochi anni fa, i governi, sotto la cosiddetta dottrina
Mitterrand, si giovavano indirettamente dei terrorismi interni spagnolo e
italiano, ospitando e garantendo asilo ai terroristi di ETA e del
brigatismo nostrano.
Uno degli effetti
meno studiati del fenomeno terroristico è proprio questo: il suo
carattere ambiguo che mina la coesione sociale, la solidarietà alle
vittime, la fiducia nelle istituzioni. Le vittime in tutta Europa, negli
ultimi 30 anni, si sono trovate a doversi auto-organizzare, spesso
nell'indifferenza della società e nell'imbarazzo delle istituzioni
statali.
Solo rari e recenti studi
hanno evidenziato il ruolo positivo e propulsivo che le associazioni
hanno svolto nel gioco democratico sotto il profilo qualitativo della
trasparenza (contro la ragion di Stato e i suoi segreti), della
giustizia (mancata o insufficiente) e della ricostruzione storica; e
sotto quello "narrativo" che le testimonianze delle vittime giocano
nella 'guerra di parole' contro il terrorismo e la radicalizzazione
violenta. Il ruolo assistenziale e la dimensione autorganizzata (self help group) per far fruire a vittime e familiari i loro diritti è ancor meno conosciuto.
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