domenica 29 marzo 2015

Dal Bardo a Torino: le opzioni di lotta al terrorismo

A Tunisi si è svolta oggi la marcia internazionale contro il terrorismo. In migliaia sono partiti dalla piazza del raduno, Bab Saadoun. "Stessa lotta a Copenaghen Parigi e Tunisi", "basta odio e morte", sono alcuni degli slogan e degli striscioni dei manifestanti. Al corteo anche i leader mondiali, tra i quali il premier Matteo Renzi che ci ha fatto ascoltate le parole di circostanza: "una terribile ferita… la Tunisia non è sola… non la daremo vinta ai terroristi… ".

Al di là di tali parole, le politiche con le quali il nostro paese contrasta il terrorismo, nelle dimensioni e sfide che ha assunto con l'ISIS, non sono oggetto che conquisti le prime pagine o l'apertura dei telegiornali. E' più facile che ciò accada per i "vecchi" fatti degli Anni di Piombo: dal caso Moro, al caso Battisti o le strage impunite.
Anche i dibattiti pubblici seguono la stessa logica. Così oggi, dall'inizio di quest'anno, sappiamo che, dopo i fatti di "Charlie Hebdo", è stato faticosamente approvato un decreto antiterrorismo che si limita a introdurre nuovi reati o a modificare il Codice penale. La strada maestra italiana della lotta al terrorismo resta quella, indiscussa, dell'indagine giudiziaria e della intelligence, da dotare degli strumenti legislativi adatti ed oggi indirizzati ad apologeti, reclutatori e foreign fighter.

Le prime applicazioni del decreto sono arrivate con la inchiesta "Balkan connection" di pochi giorni fa che ha scoperto una cellula terroristica dell'ISIS in Italia. Su tre arrestati due sono del torinese. Altri due indagati rilasciati a piede libero, sono entrambi di Torino e provincia. Tutti giovanissimi e spesso semplici studenti.
La mia impressione è che l'area metropolitana di Torino si stia avviando a diventare una grande bandlieue del nord ovest, non dissimile da quelle parigine.

L'assenza di dibattito però impedisce che si possa ragionare su altri strumenti di contrasto al terrorismo e alle forme di radicalizzazione violenta che iniziano a penetrare nel nostro paese sotto gli occhi di genitori ed insegnanti stupiti ed ignari.
Mi riferisco all'uso del soft power: quegli strumenti sociali ed educativi che attuano interventi nelle comunità a rischio, nelle prigioni, nelle famiglie, nelle scuole e che puntano ad intervenire sulle radici del fenomeno terroristico, di cui ho parlato qui, su Avvenire e a Rai radio 1.

Intervenire cioè nelle fasi (e nei luoghi) del processo di radicalizzazione precedenti a quelle finali in cui la violenta diventa pratica concreta, è quanto tentano di fare molti paesi europei, e la Commissione Europea consiglia, usando strumenti che preventivamente intervengano sulle persone e nelle comunità, fornendo ad esempio consapevolezza alle famiglie e agli opinion leader locali e religiosi, programmi di deradicalizzazione  nelle prigioni o di rafforzamento del pensiero critico nelle scuole.
Qui in Italia si sta invece intervenendo nel processo di radicalizzazione violenta dei giovani estendendo l'applicazione delle leggi anche a chi non ha ancora compiuto fatti di sangue, a chi ha fatto propaganda, a chi è in contatto con foreign fighter, a chi si è prestato a forme di reclutamento on line.  Fatti gravi,  certamente, ma che usano solo la mano pesante della legge, rinunciando a ogni forma soft preventiva di recupero sociale dei soggetti e delle comunità a rischio.
Soggetti e comunità i cui profili - giovani emigrati di seconda generazione dell'area torinese - stanno emergendo senza che nessuno se ne accorga, se ne preoccupi e se ne faccia politicamente carico.

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