mercoledì 21 settembre 2016

Malintesi linguistici intorno alla radicalizzazione violenta e all’Islam radicale.




Ricordo ancora il Presidente del Consiglio Monti, al rientro da Bruxelles, dichiarare che “dobbiamo combattere la radicalizzazione”. L’espressione sul viso non dissimulava il fatto che non avesse molto chiaro quel concetto probabilmente appena sentito in un incontro con la Commissione Europea.
Cosa si erano inventati gli 'eurocrati' questa volta?
Non avendo potere in materia di sicurezza, la Commissione, attraverso il  “Programma di Stoccolma” per il periodo 2010-2014 e la “EU Strategy on Radicalisation’” (adottata nel 2005, e rivista nel 2008 e 2014), ha provato a valorizzare a livello Europeo quelle politiche e programmi di prevenzione del terrorismo, attivati in alcuni paesi nordici (Regno Unito, Olanda, Germania, Svezia e Danimarca), che cercano di incidere sulle radici del fenomeno. Su quello che la recente letteratura scientifica post 11/9/2001 ha descritto come processo di radicalizzazione violenta che investe i giovani che si fanno reclutare o che si auto-reclutano in gruppi estremisti che praticano la violenza.

Da notare subito che  tale approccio non si è mai rivolto al solo terrorismo di matrice islamista, anzi le prime e più interessanti esperienza  europee erano rivolte ai gruppi giovanili neonazisti, come avvenuto in Svezia a Germania. Gli studi hanno riguardato anche fenomeni come quelli del nostro passato per le Brigate Rosse. La radicalizzazione violenta è  un processo psico-sociale che viene osservato o sul quale si interviene  al di là dell’ideologia violenta con cui si sposa (la “giusta causa” per cui uccidere e/o farsi uccidere) e gli interventi educativi, sociali e psicologici che si attuano per prevenirla sono frutto di attività locale, di resiliente  e multidisciplinare collaborazione tra amministrazioni e società civile.
Avendo però negli ultimi anni dominato la scena del terrorismo, l’IS, o ISIS o Daesh, e avendo la politica e i media, per pigrizia o imperizia, abbandonato od omesso l’aggettivazione “violenta”, la radicalizzazione si è trovata ben presto linguisticamente stravolta nel mare magnum dell’informazione. Con i termini tipo "radicalizzazione jihadista" se non ancor più semplificati di "Islam radicale".
Non stupisce, allora, la requisitoria dell’elzeviro di Roberto Casati comparso sulla terza pagina dell'ultimo numero del supplemento domenicale del Sole24Ore, intitolato “Islam non radicale ma distorto”.

Lì si arriva al paradosso di imputare al termine “Islam radicale” l’origine dell’attività de-radicalizzazione. Nella frase “esistono delle scale di “radicalità” che le forze di polizia usano per misurare la pericolosità dei sospetti e dei sorvegliati speciali”, a proposito delle politiche del governo francese, c’è il culmine del paradosso linguistico nel contesto più inappropriato, quello francese,  per discettare sul termine 'radicale/radicalizzazione'.
La Francia è infatti nota per essere partita tardivamente ad affrontare la radicalizzazione violenta, cioè solo dopo i fatti di Charlie Hebdo; inoltre l’approccio centralistico dello Stato sta inficiando gravemente l’efficacia dei suoi programmi; e l’uso di “radicalizzazione jihadista” nella comunicazione de la Republique alimenta malintesi linguistici fino a rischiare di assumere un carattere discriminatorio e controproducente. (Si veda anche questo precedente post.)

Il senso delle ricerche e delle politiche di prevenzione della radicalizzazione violenta e di de-radicalizzazione si comprendono solo spostando lo sguardo verso i paesi (nordici) che hanno una  cultura della prevenzione del crimine che agisce sui territori nei quali già esistano, o di possano sviluppare, coesione sociale, resilienza, fiducia tra istituzioni (anche della sicurezza) e cittadini tutti.
Compreso questo, anche in Italia, il linguaggio potrebbe diventare allora meno equivoco e controproducente, come giustamente auspica Roberto Casati nell’articolo del Sole24Ore sopra citato.

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