Ricordo ancora il Presidente del Consiglio Monti, al rientro
da Bruxelles, dichiarare che “dobbiamo combattere la radicalizzazione”. L’espressione
sul viso non dissimulava il fatto che non avesse molto chiaro quel concetto probabilmente
appena sentito in un incontro con la Commissione Europea.
Cosa si erano inventati gli 'eurocrati' questa volta?
Non avendo potere in materia di sicurezza, la Commissione, attraverso
il “Programma di Stoccolma” per il
periodo 2010-2014 e la “EU Strategy on Radicalisation’” (adottata nel 2005, e
rivista nel 2008 e 2014), ha provato a valorizzare a livello Europeo quelle
politiche e programmi di prevenzione del terrorismo, attivati in alcuni paesi
nordici (Regno Unito, Olanda, Germania, Svezia e Danimarca), che cercano di
incidere sulle radici del fenomeno. Su quello che la recente letteratura
scientifica post 11/9/2001 ha descritto come processo di radicalizzazione
violenta che investe i giovani che si fanno reclutare o che si auto-reclutano
in gruppi estremisti che praticano la violenza.
Da notare subito che tale approccio non si è mai rivolto al solo terrorismo
di matrice islamista, anzi le prime e più interessanti esperienza europee erano rivolte ai gruppi giovanili
neonazisti, come avvenuto in Svezia a Germania. Gli studi hanno riguardato anche fenomeni come quelli del nostro passato per le Brigate Rosse. La radicalizzazione violenta è un processo psico-sociale che viene osservato
o sul quale si interviene al di là dell’ideologia
violenta con cui si sposa (la “giusta causa” per cui uccidere e/o farsi
uccidere) e gli interventi educativi, sociali e psicologici che si attuano per prevenirla sono
frutto di attività locale, di resiliente
e multidisciplinare collaborazione tra amministrazioni e società civile.
Avendo però negli ultimi
anni dominato la scena del terrorismo, l’IS, o ISIS o Daesh, e avendo la politica
e i media, per pigrizia o imperizia, abbandonato od omesso l’aggettivazione “violenta”,
la radicalizzazione si è trovata ben presto linguisticamente stravolta nel mare
magnum dell’informazione. Con i termini tipo "radicalizzazione jihadista" se non
ancor più semplificati di "Islam radicale".
Non stupisce, allora, la requisitoria dell’elzeviro di
Roberto Casati comparso sulla terza pagina dell'ultimo numero del supplemento domenicale del Sole24Ore,
intitolato “Islam non radicale ma distorto”.
Lì si arriva al paradosso di imputare al termine “Islam radicale”
l’origine dell’attività de-radicalizzazione. Nella frase “esistono delle scale
di “radicalità” che le forze di polizia usano per misurare la pericolosità dei
sospetti e dei sorvegliati speciali”, a proposito delle politiche del governo
francese, c’è il culmine del paradosso linguistico nel contesto più inappropriato,
quello francese, per discettare sul
termine 'radicale/radicalizzazione'.
La Francia è infatti nota per essere partita tardivamente ad
affrontare la radicalizzazione violenta, cioè solo dopo i fatti di Charlie
Hebdo; inoltre l’approccio centralistico dello Stato sta inficiando gravemente l’efficacia
dei suoi programmi; e l’uso di “radicalizzazione jihadista” nella comunicazione
de la Republique alimenta malintesi linguistici fino a rischiare di assumere un
carattere discriminatorio e controproducente. (Si veda anche questo precedente post.)
Il senso delle ricerche e delle politiche di prevenzione
della radicalizzazione violenta e di de-radicalizzazione si comprendono solo
spostando lo sguardo verso i paesi (nordici) che hanno una cultura della prevenzione del crimine che
agisce sui territori nei quali già esistano, o di possano sviluppare, coesione
sociale, resilienza, fiducia tra istituzioni (anche della sicurezza) e
cittadini tutti.
Compreso questo, anche in Italia, il linguaggio potrebbe diventare
allora meno equivoco e controproducente, come giustamente auspica Roberto
Casati nell’articolo del Sole24Ore sopra citato.
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