lunedì 6 febbraio 2017

Radicalizzazione violenta: il concetto di risentimento tra terroristi e vittime

[short paper to suggest as the concept of resentment could be more suitable and pivotal than grievance in describing the violent radicalisation pathway and the feeling of victims of terrorism]  



Nelle ricerche e negli ormai numerosi paper sulla radicalizzazione violenta, si trova tra i fattori psico-sociali di innesto di tale fenomeno il termini 'grievance': circa 15.600 occorrenze sono individuate da Google Scholar nella ricerca "violent radicalisation + grievance".
Il termine è traducibile in italiano come lamentala, torto (subito), reclamo; la definizione inglese parla di "a complaint or a strong feeling that you have been treated unfairly", cioè un reclamo o una forte sentimento per essere stati trattati ingiustamente.

Lo stesso termine si trova anche in relazione alle vittime del terrorismo come esito emotivo nei sopravvissuti e nei famigliari.
Tale coincidenza andrebbe sicuramente approfondita:  il fatto che chi si radicalizza e chi sopravvive agli esiti della radicalizzazione violenta condividano un fattore emotivo non è paradossale. Da un punto di vista psichiatrico e delle neuroscienze, andrebbero studiato le psicopatologiche connesse alla greviance, come il Disturbo da Stress Postatraumatico (DPTS) e i sintomi di primo rango o disturbi della coscienza dell'Io, che accomuano entrambi i soggetti in forme e modi ancora molto da indagare.

Quello che però vorrei sottolineare, sulla scorta di 15 anni di collaborazione con la maggiore associazione di vittime del terrorismo in Italia e di 5 anni di ricerche e pratiche sulla radicalizzazione violenta in seno al Radicalisation Awareness Network, è il fatto che c'è un termine che reputo sia più utile utilizzare, rispetto a greviance: resentment, ovvero "a bitter indignation at having been treated unfairly", l'amara indignazione per essere stati trattati ingiustamente.

Il risentimento, non solo in italiano, è un concetto che trovo assai più pertinente da utilizzare verso entrambi i soggetti, che ha il pregio di aver ricevuto l'attenzione di discipline diverse da molto tempo.

Pensiamo alla definizione che ne dà Edgard Morin in "Il vivo del soggetto" (1969):  
"Esiste il risentimento, che è memoria infetta".
In relazione ai sopravvissuti e ai famigliari delle vittime del terrorismo questa definizione risulta particolarmente calzante, soprattutto posta in relazione all'attività di "imprenditori della memoria", come sono state definite le associazioni delle vittime del terrorismo e delle stragi (A. Lisa Tota, La città ferita), che proprio attraverso il lavoro di memoria cercano di curare l'infezione di cui sono affette.

Pensiamo viceversa alla definizione fornita già da Nietzsche  come ce lo restituisce René Mario Micallef, (2001, in Il confronto tra Max Scheler e Friederich Nietzschene “Il Risentimento nella edificazione delle morali”):
"La ribellione degli schiavi (cattivi, plebei, volgari, deboli...), pieni di risentimento contro gli aristocratici (buoni, nobili, forti...) è iniziata quando il risentimento divenne creativo, producendo valori. Valori, però, che presuppongono un mondo estraneo e avversario contro il quale re-agire. Il mondo avversario si identifica nel nobile: questo diviene oggetto di odio e viene etichettato “malvagio”. Di conseguenza, diventa “buono” ciò che non è nobile - il volgare, le cose basse, la debolezza. Le persone nobili e il loro agire ha sempre un che di “bestiale”, “barbaro” che rivela la loro vitalità: essi dicono sì alla vita. I valori del risentimento, invece, propongono l’addomesticamento di questi tratti da animale di rapina: questo processo, chiamato civilizzazione, è propriamente un contagiare i forti con la malattia dei risentiti. Il risultato è la stanchezza vitale che oggigiorno si può constatare nell’uomo contemporaneo e nel suo agire: ecco il nichilismo!"
Nel caso del soggetto che si va radicalizzando nella violenza il “bestiale”, “barbaro” assume la valenza nichilista opposta di chi dice no alla vita, in grado di disumanizzare il nemico fino ad ucciderlo, anche suicidandosi.

Più in generale il termine risentimento è utilizzato per descrivere un'emozione sociale in determinati contesti storici; come, ad esempio, quello dei tedeschi della repubblica di Waimar per le ingiuste condizioni poste dal trattato di Versailles, e che ha aperto cognitivamente la loro menti al nazionalsocialismo, con il suo leader carismatico e le sue teorie del complotto.

Nel processo di radicalizzazione violenta il passaggio successivo dei singoli soggetti è proprio dal risentimento all'apertura cognitiva verso ideologie totalizzanti, terrene (come nazi-fascismo e marxismo-leninismo) o ultraterrene (come l'odierno jihadismo) che siano, con le loro conspiracy theories (dai complotti giudaici dei protocolli di Sion, a quelli delle SIM di memoria brigatista, a quelle attuali dei governi Occidentali e apostati) e i loro leader carismatici con i loro reclutatori.

Naturalmente è sempre utile ricordare che solo un infimo numero di persone che provano risentimento arriva all'ultimo livello di radicalizzazione, ma ribadiamo che quel concetto esprime in modo più appropriatamente politico il sentimento/emozione/stato-mentale che lo sottende: è il risentimento quello che polarizza pericolosamente le nostre società, che alimenta propagande e post-verità di odio che de-umanizzano i gruppi diversi da quello di appartenenza.

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