Gli ultimi giorni forniscono utili informazione sulla situazione torinese dei foreign fighters: quelli 'buoni' e quelli 'cattivi', ma le loro storie dovrebbero indurci a qualche riflessione sulla proposta di legge Dambruoso/Manciulli in discussione in parlamento: il rischio non è solo la radicalizzazione jihadista.
Da La Stampa apprendiamo che sul fronte siri-iracheno, da Torino, potrebbero essere partiti almeno una quindicina di miliziani pro-Isis, a cui si aggiungono quelli fermati ed espulsi come Mouner El Aoual, 29 anni, arrestato a Torino, pochi giorni fa.
Sullo stesso fronte ci sono però anche altri torinesi nel Battaglione Ait, acronimo di Antifascista Internazionalista Tabùr, che combattono con i guerriglieri curdi del Rojava che si ispirano al Pkk, la formazione irredentista che ha i suoi presidi nel Kurdistan turco al confine con la Siria. I combattenti, entrati da tempo in territorio siriano, stanno liberando la città di Raqqa ancora in mano all’Emiro del Daesh. Fanno parte dell'area anarchica Torinese e Valsusina, con legami ai centri sociali e al movimento No Tav.
"I cittadini italiani che hanno scelto di arruolarsi nelle milizie o negli eserciti regolari che combattono sui fronti più lontani, commettono un reato? Vengono perseguiti dalle procure?", si chiede il giornalista de La Stampa, Massimo Numa.
«Non esattamente. È evidente che le strutture di polizia e carabinieri e anche i servizi di Intelligence monitorano attentamente questo fenomeno in crescita da qualche tempo - spiega un investigatore - sappiamo i nomi, più o meno, perché sono dati che variano spesso, di chi combatte e con quali formazioni. Ma non viene contestato loro alcun tipo di reato. A meno che, tanto per fare un esempio, al ritorno in Italia non venissero sorpresi in possesso di armi o di documenti falsi. Per essere chiari: un cittadino italiano può arruolarsi nella Legione Straniera in Francia ed è perfettamente legale. Idem se lo fa in Ucraina o nel Rojava.
Le attività militari si svolgono fuori dalla giurisdizione italiana e dunque possono fare come vogliono, mettendo a rischio la propria e l’altrui vita».
In effetti il decreto legge del 18 febbraio 2015, n. 7, Misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, introduce, oltre la pena da cinque a otto anni di reclusione per chi compia arruolamento a finalità di terrorismo, anche la nuovissima fattispecie di reato contro il fenomeno dei foreign fighters, introdotta nel Codice penale col nome di “organizzazione di trasferimenti per finalità di terrorismo”, che colpisce cioè chi organizza, finanzia e propaganda viaggi che servano per compiere atti terroristici.
E' così evidente che sono le forze dell'ordine e l'intelligence a distinguere tra "foreign fighters" regolari, che partono e si arruolano con milizie ed eserciti riconosciuti, e quelli irregolari, ciò che vanno a combattere con organizzazioni terroristiche.
Un terreno comunque sottile e delicato: il diritto internazionale non ha un definizione comune di terrorismo e la storia ha mostrato più volte che quelli che in una circostanza erano considerati eroi dagli Occidentali, nel giro di qualche anno sono diventati pericolosi terroristi, come i Mujaheddin afghani ai tempi dell'invasione sovietica e poi trasformatisi in al-Qa'ida.
Osama bin Laden praised in the Independent, 1993 (license: Creative Commons) |
Abbiamo poi i returnees, cioè i combattenti che rientrano dagli scenari bellici siriano e iracheno: in Italia sono pochissimi, meno di due decine, ma non si può non evidenziare il paradosso che mentre per il rientro dei foreign fighters irregolari, cioè che tornano dalle file dell'ISIS, abbiamo strumenti repressivi come il suddetto decreto e o i discutibili procedimenti di espulsioni; per quelli regolari che hanno combattuto con i curdi, ma che al pari dei primi hanno imparato a maneggiare armi ed esplosivi, non ci sono giustamente reati imputabili, ma neppure misure di de-radicalizzazione.
Quando oggi leggiamo che "In Val Susa, nel comune di Exilles, hanno trovato casa ex combattenti delle milizie Pkk" portati lì da italiani che hanno combattuto nello stesso scenario siriano, è utile tornare a quanto scrissi nel 2014 a proposito del processo ad esponenti No TAV accusati di terrorismo. Un'accusa giustamente caduta in fase processuale, ma che evidenzia la necessità di misure di prevenzione e contrasto della radicalizzazione che affianchino quelle tradizionali dell'antiterrorismo. Sono politiche e programmi che stanno funzionando in molti paesi del mondo a patto di ritagliarle sulle necessità e i rischi reali dei vari territori, prima che i reati vengano commessi e legge e forze di sicurezza debbano intervenire.
E' quindi benvenuta la legge in discussione in Parlamento per introdurre nel nostro paese misure di prevenzione della radicalizzazione violenta (di cui potete leggere qui il testo con gli ultimi emendamenti approvati), ma il caso torinese della Valsusa evidenzia quanto sia insensato indirizzarla solo alla matrice jihadista.
I rischi e i contesti sono molteplici: c'è il mainstream internazionale jihadista, certo, ma galassia anarchica, a sinistra, e islamofobia, a destra, potrebbero riservare brutte sorprese in Italia.
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