La doppia emergenza costituta l'una del flusso immigratoria e l'altra dal terrorismo internazionale, si ritrovano spesso legate dal concetto giuridico di cittadinanza. Se intorno alla prima suonano domande relativi a quali migranti abbiano diritto di acquisire la cittadinanza, su quale base ottenerla, il sangue o il suolo, e in che tempi. La domande intorno al terrorismo riguardano quello strumento di contrasto costituito dal privare il terrorista della cittadinanza.
L'ex presidente francese François Hollande aveva annunciato di voler attuare tale misura nell'interesse della sicurezza nazionale, dopo gli attacchi su Parigi del 13 dicembre 2015. L'Olanda l'ha recentemente attuata per quei cittadini dotati di doppia cittadinanza, così come Israele già da tempo.
Privando della cittadinanza nazionale il terrorista originario di altro paese e dotato anche della cittadinanza originaria, l'intento dello Stato è quello di rendere più difficile il rientro di quei suoi cittadini diventati combattenti all'estero (foreign fighter). Privati della cittadinanza del paese occidentale "ospitante", il foreign fighter si ritrova perseguitato non solo dalle leggi di contrasto al terrorismo, ma anche di quelle di contrasto all'immigrazione illegale.
Quei terroristi che esercitano il crimine fuori dal contesto nazionale presentano però, al di là che abbiano o meno una doppia cittadinanza, un problema di legittimità di grande rilievo per il paese che vuole incriminarli. Il reato si compie infatti fuori della legittima competenza territoriale.
Se "capitani di ventura" e mercenari esistono da tempi lontani, altri combattenti non sono stati mossi dal "vil denaro", ma da "nobili ideali". Basti pensare a quel nostro padre della patria che si chiama Garibaldi, che prima e dopo le guerre italiane, inclusa la famosa Spedizione dei Mille, combatté in Sud America e in Francia. O ai fuoriusciti sotto il fascismo che andarono a combattere nella Guerra di Spagna, prima di unirsi alla Resistenza italiana. O ancora quei giovani italiani che recentemente sono andati a combattere con i curdi siriani del Rojava contro l'IS.
In base a quelle diritto un Stato persegue legalmente un suo cittadino che combatte in uno scenario bellico nel quale non è coinvolto e parte in causa?
La risposta la troviamo nell'ultimo decreto antiterrorismo, il decreto legge 18 febbraio 2015, n. 7, convertito nella legge 17 aprile 2015, n. 43 intitolato "Misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale": nella partecipazione ad un conflitto all'estero a sostegno di organizzazioni terroristiche.
Quindi i giovani dell'area antagonista anarchica dei centri sociali che vanno in Rojava non infrangono la legge, mentre chi si unisce allo Stato Islamico, sì.
Il carattere equivoco intorno all'uso della connotazione di "terrorismo", si palesa bene in questa circostanza specifica.
Da una parte non si nota che chi va a combattere fuori con gruppi legittimi, al suo rientro sa usare le armi e potrebbe essere tentato di utilizzarle in Italia, come hanno fatto i reduci delle campagne in Sud America e in Spagna in occasione dell'Unità d'Italia e della Resistenza.
Dall'altra non si nota che il movente di molte adesioni all'IS, uno dei "nobili ideali", è quello di combattere un regime, quello siriano di Assad, a sua volta promotore di un terrorismo di Stato. Quello che ha assunto una nuova ignobile forma segnalata da John Horgan in Psicologia del terrorismo, costituita dal colpire selettivamente bambini: 11.000 quelli uccisi dal regime solo dall'inizio del conflitto alla fine del 2013 (Oxford Reseach Group).
Il paradosso siriano è che non è rimasto nessuno a combattere legittimamente il terrorismo di Stato di Assad. Ad eccezione di qualche bombardamento made in USA, chi lo fa è oggi ricondotto alla causa del jihadismo globale. Quale argomento migliore per la sua causa della rinuncia occidentale a combattere uno Stato terrorista vero, dopo le accuse false al leader iracheno Saddam Hussain all'origine dell'instabilità geopolitica di quell'area?
L'ex presidente francese François Hollande aveva annunciato di voler attuare tale misura nell'interesse della sicurezza nazionale, dopo gli attacchi su Parigi del 13 dicembre 2015. L'Olanda l'ha recentemente attuata per quei cittadini dotati di doppia cittadinanza, così come Israele già da tempo.
Privando della cittadinanza nazionale il terrorista originario di altro paese e dotato anche della cittadinanza originaria, l'intento dello Stato è quello di rendere più difficile il rientro di quei suoi cittadini diventati combattenti all'estero (foreign fighter). Privati della cittadinanza del paese occidentale "ospitante", il foreign fighter si ritrova perseguitato non solo dalle leggi di contrasto al terrorismo, ma anche di quelle di contrasto all'immigrazione illegale.
Quei terroristi che esercitano il crimine fuori dal contesto nazionale presentano però, al di là che abbiano o meno una doppia cittadinanza, un problema di legittimità di grande rilievo per il paese che vuole incriminarli. Il reato si compie infatti fuori della legittima competenza territoriale.
Se "capitani di ventura" e mercenari esistono da tempi lontani, altri combattenti non sono stati mossi dal "vil denaro", ma da "nobili ideali". Basti pensare a quel nostro padre della patria che si chiama Garibaldi, che prima e dopo le guerre italiane, inclusa la famosa Spedizione dei Mille, combatté in Sud America e in Francia. O ai fuoriusciti sotto il fascismo che andarono a combattere nella Guerra di Spagna, prima di unirsi alla Resistenza italiana. O ancora quei giovani italiani che recentemente sono andati a combattere con i curdi siriani del Rojava contro l'IS.
In base a quelle diritto un Stato persegue legalmente un suo cittadino che combatte in uno scenario bellico nel quale non è coinvolto e parte in causa?
La risposta la troviamo nell'ultimo decreto antiterrorismo, il decreto legge 18 febbraio 2015, n. 7, convertito nella legge 17 aprile 2015, n. 43 intitolato "Misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale": nella partecipazione ad un conflitto all'estero a sostegno di organizzazioni terroristiche.
Quindi i giovani dell'area antagonista anarchica dei centri sociali che vanno in Rojava non infrangono la legge, mentre chi si unisce allo Stato Islamico, sì.
Il carattere equivoco intorno all'uso della connotazione di "terrorismo", si palesa bene in questa circostanza specifica.
Da una parte non si nota che chi va a combattere fuori con gruppi legittimi, al suo rientro sa usare le armi e potrebbe essere tentato di utilizzarle in Italia, come hanno fatto i reduci delle campagne in Sud America e in Spagna in occasione dell'Unità d'Italia e della Resistenza.
Dall'altra non si nota che il movente di molte adesioni all'IS, uno dei "nobili ideali", è quello di combattere un regime, quello siriano di Assad, a sua volta promotore di un terrorismo di Stato. Quello che ha assunto una nuova ignobile forma segnalata da John Horgan in Psicologia del terrorismo, costituita dal colpire selettivamente bambini: 11.000 quelli uccisi dal regime solo dall'inizio del conflitto alla fine del 2013 (Oxford Reseach Group).
Il paradosso siriano è che non è rimasto nessuno a combattere legittimamente il terrorismo di Stato di Assad. Ad eccezione di qualche bombardamento made in USA, chi lo fa è oggi ricondotto alla causa del jihadismo globale. Quale argomento migliore per la sua causa della rinuncia occidentale a combattere uno Stato terrorista vero, dopo le accuse false al leader iracheno Saddam Hussain all'origine dell'instabilità geopolitica di quell'area?
Nessun commento:
Posta un commento