VITTIME E MEDIA
Non è piacevole, in ogni attentato terroristico che coinvolga italiani, avere conferma puntuale delle mie osservazioni sulla percezione sociale delle vittime del terrorismo ( su Rassegna Italiana di Criminologia RIC, N.4 Dec 2017).
Nell'attentato di Melbourne del 9 novembre scorso la notizia che sia rimasto colpito l'italiano Sisto Malaspina è durata poche ore ed è stata addirittura omessa in alcuni telegiornali nazionali; nel caso di Antonio Megalizzi abbiamo invece un'ampia copertura mediatica.
Qui il brano che spiega il motivo della differenza di trattamento che alle vittime in generale non fa mai bene.
" (...) Riprendendo invece il tema della percezione degli attentati terroristici e le relative vittime da parte dell'opinione pubblica, ci sono altri aspetti, e altri ancora sono certo che mi saranno sfuggiti, tra i quali segnalo i limiti spaziali e temporali in cui si manifesta la solidarietà alle vittime: a) si svolge nella prima immediatezza dell’attentato, per scemare più o meno rapidamente ; b) è circoscritta geograficamente in un perimetro più o meno grande.
Il primo di questi fattori è la copertura mediatica temporale; l’attenzione dell’opinione pubblica dura fino quando giornali e televisioni ne parlano, ma non solo, l’eco permane anche in considerazione dalla personalità della vittima. Quando essa è un giornalista (pensiamo al rapimento dei reporter Giuliana Sgrena e Domenico Quirico, o alla redazione di Charlie Hebdo), una parte del mondo dell’informazione assurge, almeno temporaneamente, al ruolo di associazione delle vittime, attivandosi per le allargare la solidarietà nello spazio e nel tempo. Manifestazioni pubbliche e corali in molti paesi europei per un attentato sul suolo continentale ci sono state solo dopo Charlie Hebdo, nel gennaio 2015, anche se quell’attentato non è stato sicuramente il più grave inferto alla Francia o al nostro continente. Analogamente la reazione dei media verso i rapiti da organizzazioni terroristiche è asimmetrica rispetto alla richiesta di silenzio stampa che il governo richiede in tali circostanze: se il rapito è un giornalista la richiesta è attenuata o addirittura elusa, se non è giornalista, o in qualche modo esponente di un gruppo in grado di esercitare pressione sui media, la richiesta viene accondiscesa.
Un’altra osservazione empirica ci informa dello spazio; quanto più l’attentato è lontano dalla nostra area di prossimità, quella percepita dall’opinione pubblica dai confini nazionali ed europei, tanto meno si esprime solidarietà verso le vittime. Attentati che hanno colpito giovani vite, simili a quelli di Manchester (2017) o dell’isola di Utoya (2011), se accadono fuori dai confini europei hanno una minima eco sui media e sull’opinione pubblica. Con l’eccezione del rapimento di 276 ragazze nigeriane da parte dei Boko Haram nel 2014 che ha sollevato una vasta campagna in loro sostegno “BringBackOur Girls” partecipata da testimoni del calibro di Michelle Obama, la norma è rappresentata dal fallimento di rendere virale la solidarietà in fatti quali l’attentato al parco di Lahore in Pakistan nel 2016 che ha colpito 30 bambini tra le 72 vittime, o quello al campus universitario di Garissa in Kenia nel 2015 che ha ucciso 150 persone, in maggioranza studenti. Le stesse vittime italiane dei recenti attentati sono riconosciute in modo non dissimile, a seconda che l’attentato sia avvenuto geograficamente vicino o lontano. Vanessa Solesin, la studentessa veneziana uccisa al Bataclan di Parigi nel 2015 ha provocato maggiori partecipazioni di quelle, l’anno successivo, verso i nove italiani massacrati in un ristorante di Dacca, in Bangladesh. Il dato potrebbe essere avvalorato dalle metriche sui trend italiani degli hashtag su Twitter #PrayForParis e #PrayForDhaka." (...)
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