L'abbraccio fra un giovanissimo detenuto e una donna venuta fuori dal
carcere a raccontare la tragica storia di suo figlio. E poi le parole
del ragazzo: "Grazie. Avrei voluto sentire cose così prima di finire qui
dentro".
L'incontro, nell'aprile scorso, fra i giovani reclusi del
penitenziario minorile Ferrante Aporti di Torino e Valeria Collina,
madre italiana convertita all'Islam che ha visto suo figlio imboccare la
strada del terrorismo, è stato uno dei momenti più toccanti del
progetto europeo "Fair" (acronimo di Fighting against inmates'
radicalization) per prevenire la radicalizzazione in carcere.
La signora Collina ha parlato della tragica vicenda del figlio 22enne
Youssef Zaghba, che il 3 giugno 2017 con altri due estremisti ha preso
parte a un attentato sul London Bridge, che ha causato 11 vittime, fra
cui i tre attentatori.
Con coraggio e franchezza, mamma Valeria ha condiviso uno spaccato
esistenziale in cui elementi di vita familiare, contesto religioso,
problemi di incomprensione, ma anche sollecitazioni giunte dal web e
dallo scenario geopolitico, hanno concorso a ciò che poi è avvenuto.
La sua narrazione è un tassello del mosaico di incontri e laboratori
realizzato dal progetto Fair. Costato circa 900mila euro (il 90% da
fondi Ue), è tra quelli finanziati dalla Commissione Europea in materia
di radicalizzazione e terrorismo.
È partito nel 2017 e si concluderà fra un mese. Ed è stato portato
avanti dalla Fondazione Nuovo Villaggio del Fanciullo di Ravenna, ente
capofila di una decina di partner di Finlandia, Lituania, Ungheria,
Romania, Slovenia, Olanda, Portogallo e Malta.
I risultati del progetto verranno analizzati oggi in Senato, in un
convegno aperto dalla vicepresidente dell'assemblea di Palazzo Madama,
Anna Rossomando, e dal capo del Dap Francesco Basentini e al quale
prenderanno parte criminologi, magistrati ed esperti europei. In Italia,
su circa 60mila detenuti in 190 istituti, circa 7mila (fra cui 44
"convertitisi" in carcere) sarebbero praticanti di fede islamica.
I condannati o imputati per reati di terrorismo di matrice jihadista
sono 66 (dati de12018), inseriti in un circuito di "Alta Sicurezza": gli
uomini in apposite sezioni dei penitenziari di Nuoro, Sassari e Rossano
(Cosenza), due donne a L'Aquila. Oltre a loro, si contano 478 soggetti
monitorati per rischio di radicalizzazione jihadista: 233a livello
"alto"; 103 "medio" e 142 a livello "basso". Il progetto ha rivolto la
propria formazione anche alle guide spirituali, con una sessione per i
cappellani del Piemonte e un'altra per 50 imam (in collaborazione con
l'Ucoii) presso il Centro islamico di Brescia.
A loro si è rivolto Omar Sharif Mulbocus, ex estremista inglese negli
anni 90, oggi formatore e testimone di un percorso di
deradicalizzazione, che ha offerto strumenti pratici per aprire un
dialogo con detenuti "radicalizzati".
E la relazione del progetto Fair - visionata da Avvenire in anteprima
- registra un paradosso: l'amministrazione penitenziaria sembra
"preferire il proliferare di imam "faida te", cioè autoproclamatisi tali
in carcere, piuttosto che seguire le pratiche pilota che hanno
introdotto imam formati e stimati dalla propria comunità locale" che
conducono "la salat, la preghiera del venerdì, in arabo e in italiano
focalizzando i sermoni su perdono, riconciliazione o dialogo
interreligioso".
In carcere, il rispetto dei diritti può evitare la "vittimizzazione"
che apre la porta ai radicalismi, spiega il coordinatore scientifico
Luca Guglielminetti, e il progetto individua "raccomandazioni concrete
per l'Italia che oggi presenteremo con l'auspicio che Parlamento e nuovo
governo le facciano proprie".
Fra queste, l'adozione di una normativa in materia di prevenzione del
radicalismo, che riparta dal disegno di legge presentato da Andrea
Manciulli e Stefano Dambruoso (ora pm antiterrorismo a Bologna), che il
Parlamento non riuscì a varare alla fine della scorsa legislatura.