Quello che sta patendo
Silvia Romano è definito in letteratura la “colpevolizzazione della vittima” (
victim blaming) ed è una forma di vittimizzazione secondaria: prima la violenza fisica dei rapitori, poi quella verbale dell'opinione pubblica.
Aver assistito al meccanismo del capro espiatorio in questo periodo di lockdown da pandemia nei confronti dei vari segmenti sociali, "untori" del coronavirus, ci ha reso ancora più esercitati ad individuare colpevoli su cui scaricare i nostri risentimenti. "Abbiamo tutti meno soldi e li spendiamo per pagare un riscatto", sentiamo ripetere sui social, per fare un solo esempio.
È piuttosto paradossale il fatto che ci siamo trovati anche noi tutti rapiti ai nostri domicili nella più completa incertezza, con la necessità di inventarci qualcosa per sopravvivere e restare sani, soprattutto di mente, senza tuttavia riuscire ad attivare nei confronti di Silvia l'empatia, la capacità di immedesimarsi in un persona rapita per un periodo così lungo, un anno e mezzo (!). Anzi, come occorso nel caso di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due cooperanti poco più che ventenni partite alla volta della Siria e subito rapite il 31 luglio 2014, anche
in questi giorni ci troviamo un quadro di “odio civile” in cui si sommano idiosincrasie politiche, religiose e sessuali.
Lo sforzo di intendere le vittime tutte uguali perché eguale è l'insensatezza e l'ingiustizia della violenza politica, ideologica, religiosa o di genere su di loro esercitata, è un passaggio culturale che a molti resta difficile compiere. Infatti,
il biasimo della vittima si indirizza a seconda della parte politica a cui l'ascriviamo. Prendiamo per esempio lo scenario iracheno del 2004: quando il rapito è percepito come di destra, nel casi di Fabrizio Quattrocchi, si scateno il biasimo di certa sinistra; pochi mesi dopo, nel caso delle sue Simone, percepite come di sinistra, all'opposto si scatena il biasimo del fronte opposto. L'anno dopo, sempre in Irak, abbiamo assistito alla polarizzazione del biasimo incrociato in occasione della liberazione della giornalista del Manifesto, Giuliana Sgrena, durante il quale viene ucciso il funzionario del SISMI, Nicola Calipari.
Queste "minoranze rumorose" con le loro espressioni di biasimo non comprendono ciò che tutti i terroristi sanno benissimo: la vittima non deve essere compianta, non deve suscitare pietà o diventa emblema di martirio: bisogna che prima di tutto essa susciti orrore, se uccisa, o disprezzo, se sopravvive.
La società civile ha sempre avuto difficoltà ad esprime pietà verso le vittime della violenza politica, se non è percepita come vicina alla propria/o parte/partito politica/o. Il prof. Angelo Ventura, tra i massimi storici del terrorismo italiano, nel 1986 così iniziò un suo intervento a Torino:
«Le vittime sono ingombranti. Gli studiosi delle forme di violenza politica conoscono bene la tendenza dell’opinione pubblica a criminalizzare la vittima, per rassicurarsi ed esorcizzare il pericolo, convincendosi che in fondo la vittima qualche cosa deve pur aver fatto per meritarsi la violenza. È questo uno dei principali effetti psicologici che intende ottenere il terrorismo, secondo un meccanismo già largamente sperimentato dallo squadrismo fascista e ora sistematicamente applicato dal terrorismo rosso e nero».
Così ancora oggi, con il terrorismo jihadista scatta un meccanismo per cui pensiamo che "la vittima se l'è cercata". In politica nessuno è innocente, è il ragionamento sotteso, quindi se ti trovi nei guai qualche cosa avrai fatto per meritarti una ritorsione.
Di fronte a Silvia Romano liberata dai suoi sequestratari di al–Shabaab che si presenta al pubblico dei suoi concittadini italiani in abiti "islamici", il paragone virale che gira sui social recita: è come se un ebreo liberato uscisse dai campi di concentramento nazisti in divisa nazista. Il presunto scandalo è talmente stupito che non offende solo Silvia con
il suo diritto di sopravvivere e affrontare il trauma con gli strumenti che ciascuna vittima di un rapimento è libera di scegliere nel contesto costrittivo e violento nella quale si ritrova, ma offende anche oltre 30 anni di eredità di pensiero di
Primo Levi. In particolare il suo insegnamento sulla figura tragica del "salvato", il sopravvissuto che sopporta già di suo il peso della vergogna (
«la vergogna del sopravvivente»), l'onta delle sua collaborazione col carnefice e il senso di colpa verso i “sommersi”.
Taluno vorrebbe, infatti, che la (presunta) collaborazione di Silvia col nemico venga pagata con la vita o con almeno con l'accusa di favoreggiamento verso il terrorismo. Altri, dagli scranni in Parlamento, la definiscono “neo terrorista”.
Ecco, concludo chiedendo ai mittenti di avere il coraggio di girare il loro biasimo a Primo Levi e ai molti sopravvissuti dei campi di sterminio che si sono suicidati dopo essere stati liberati.
Dietro il victim blaming risulterà, così evidente, sorgere un reato preciso: l’istigazione al suicidio.