martedì 19 marzo 2019

La lezione di Simone Weil sui foreign fighter “buoni”




Simone Weil fin da giovane studentessa aderì ai primi movimenti pacifisti sorti nel primo dopoguerra. Aderì a La Volonté de Paix nel 1927 e poi alla Ligue del droits de l'homme. Di fronte al conflitto di Spagna però assistiamo a un perfetto processo di radicalizzazione violenta che la trasformò in quello che oggi chiamiamo foreign fighter. Tale esperienza è descritta sia nella sua opera Sulla guerra, che nella biografia scritta dalla sua amica Simone Pétrement.

Nella Lettera a Georges Bernanos dell'agosto 1936 scrive: "Non potevo impedirmi di partecipare moralmente a guerra, e cioè di desiderare ogni giorno, ogni ora, la vittoria degli uni, la sconfitta degli altri, mi sono detta che Parigi era per me la retrovia, e ho preso il treno per Barcellona con l'intenzione di arruolarmi." Il suo biografo commenta: "Simone pensava che, quando non si può impedire una guerra, bisogna assumere la propria parte in questa sventura con il gruppo al quale si appartiene". L'adesione al gruppo nasce dall'empatia verso le sofferenza dei simili dettagliata nella sua autopercezione: "la mia immaginazione funziona sempre in un modo per me molto penoso. Il pensiero delle sofferenze o dei pericoli cui non partecipo mi riempie di orrore, pietà, vergogna e rimorso, un miscuglio che mi toglie ogni libertà di spirito; solo la percezione delle realtà mi libera da tutto ciò".

Percezione che diventa sinonimo di mobilitazione. Simone Weil varca il confine, si unisce ad un gruppo repubblicano e impara ad utilizzare le armi e ad apprezzare l'adrenalina. Al pensiero di poter essere catturata e fucilata non segue la paura, ma uno stato d'animo di estrema tranquillità. E' pronta a morire per la causa: "Se mi prendono mi uccidono… Ma è giusto. I nostri hanno versato abbastanza sangue. Sono moralmente complice."

La sua forte miopia comportò la brevità della sua esperienza di combattente: un banale incidente la riporterà in Francia per le cure di un’ustione. Là acquisterà una coscienza 'de-radicalizzata': "Non sentivo più alcuna necessità interiore di partecipare a una guerra". Non è venuto meno il suo impegno politico con il suo gruppo, ma comprende che la partita "non era più, come mi era sembrata all'inizio, una guerra di contadini affamati contro i proprietari terrieri e un clero complice dei proprietari, ma una guerra tra Russia, Germania e Italia".

La sua "percezione delle realtà" aveva allargato i confini alla dimensione geo-politica: la "giusta causa" che l'aveva portata ad imbracciare un'arma si è dissolta di fronte alla realpolitk. Cioè la strumentalizzazione del conflitto spagnolo da parte degli attori europei di cui aveva già colto la comune natura totalitaria nell'articolo del 1933: Il ruolo dell'URSS nella politica mondiale.

Come sia proseguita l’azione e la riflessione della Weil negli anni successivi è più noto: privilegiare l'azione “non-violenta efficace”, da una parte, arginare “il peccato originale dei partiti”, dall’altra. Per i giovani italiani accorsi nelle file curde del YPG e YPJ sullo scenario bellico siriano, è sufficiente la sua lezione nella esperienza della guerra civile spagnola.

Possiamo, quindi, provare tutta la nostra simpatia per l’utopia “eco-socialista” e “femminista” nel Rojava, ma ci sarà un risveglio per i curdi della Federazione Democratica della Siria del Nord e i loro simpatizzanti internazionali. Un risveglio nella realpolitik: quella che non si fa con gli eroi...

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( Continua qui  "Gli italiani che hanno combattuto contro l’Isis e la lezione di Simone Weil"
da Osservatorio sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo – ReaCT Link diretto all'articolo )

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