domenica 17 dicembre 2023

Note su storie d’infamia e di terrorismo in una prospettiva vittimologica

 

Convegno Cancel Culture

Università di Padova si è svolto il primo convegno italiano sulla cancel culture


[testo del mio intervento]

Grazie Marta Ferronato per l’invito a partecipare a questo convegno.
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Permettetemi una premessa.
Se ci stiamo domandando cosa fare del passato, temo che la prima sguardo vada rivolto allo status marginale a cui sono ridotti gli studi storici e, soprattutto, il suo insegnamento nelle scuole. 
Vorrei quindi iniziare rendendo omaggio ad un grande storico dell’università di Padova, scomparso nel 2016, Angelo Ventura. Professore emerito di Storia Contemporanea che non solo risulta essere, nella revisione degli studi e del dibattito sul terrorismo italiano, condotta da Giovanni Mario Ceci, uno dei rarissimi protagonisti di valore ad aver affrontato il fenomeno. Non è stato solo uno storico che ha coraggiosamente studiato il terrorismo rosso quando ancora non apparteneva al passato – una sorta di "storico del presente”, come lo descrive Sergio Luzzato nella sua recensione sul Domenicale del Sole24Ore della sua opera più famosa “Per una storia del terrorismo italiano”. Angelo Ventura è anche la prima storia d’infamia che vi presento, in quando tale, un infame, era considerato dagli ambienti patavini dell’Autonomia Operaia, che non perdonavano chi si ribellava alle loro intimidazioni sistematiche, ma entrava invece proprio tra gli obiettivi da colpire: lui con l’attentato subito il 26 settembre 1979, come altri suoi colleghi nel triennio 1977-79. 
Uno storico che inizia quindi a studiare il fenomeno che ha sotto gli occhi e dal quale è stato direttamente colpito. E questa anche è la prima prospettiva vittimologica, che si inscrive in quel paradigma che ha in Primo Levi l’esempio più illustre di capacità d’analisi di una vittima, sopravvissuta al peggior atto d’infamia del XX secolo, la Shoah. É proprio in premessa al capolavoro dello scrittore torinese, I sommersi e i salvati, che Levi getta un ponte tra il concetto “sociologico” di  “zona grigia” nei campi di concentramento nazisti e quella che sottende, “fiancheggia”, “simpatizza” si diceva allora, per le Brigate Rosse. Coincidenza vuole che il libro di Primo Levi esca per i tipi di Einaudi lo stesso anno, il 1986, in cui Angelo Ventura era a Torino in occasione del convegno fondativo della maggiore associazione di vittime del terrorismo. Quella per cui ho lavorato per 15 anni, dal 2001 al 2016, come unico loro consulente, che tra i vari compiti aveva anche quello di costruire le storie delle vittime, cioè le memorie di un passato che nei primi anni duemila era ampiamente obliterato. Da allora i processi di memorializzazione dei conflitti politici è diventato uno dei miei principali campi di interesse, passato dal lavoro di base - compilare e curare le liste, le biografie e i memoriali fisici, come mostre, e digitali sul web e su supporti elettronici - a un’attività di ricerca con saggi su riviste e libri accademici  e policy paper per l’organizzazione della Commissione europea, nelle cui vesti sono qui con voi: il RAN. Il mio lavoro infatti è passato presto da una dimensione nazionale ad una europea, esattamente a partire dagli anni successivi al maggiore attentato sul suolo europeo, quello alle stazioni di Madrid del’11 Marzo 2004. 

Mi sono quindi trovato, in un primo momento, a compiere un lavoro storico di base atto al fine politico del riconoscimento sociale di un gruppo vittimario, sacrificato sull’altare delle pacificazione tra stato italico e terroristi occorso negli anni ’80 con la cosiddetta legislazione premiale (analogamente a quanto accorso in Irlanda del Nord e in Spagna), e poi ad osservare, in qualità di ricercatore, come una volta raggiunto tale riconoscimento (diritti inclusi), lo stato, ma possiamo dire gli stati e la commissione europea, provi ad utilizzare, per non dire sfruttare, le vittime come nuovi eroi da porre in musei e memoriali, come testimonials delle loro politiche  di memoria e di lotta al terrorismo. Uno uso simmetrico e contrario, come raccontò Ventura a Torino, a quello dello stato quando indugiò assai a contrastarlo nei primi anni ‘70.

Nella mia esperienza ho potuto quindi osservare una serie di dinamiche politiche intorno ai processi di memorializzazione che conferma come la tensione tra memoria ed oblio delle storie di violenze sia sempre stata una delicata e controversa scelta politica per il suo impatto sui processi di pacificazione, da una parte, e d’identità nazionale, dall’altra.

Trai molti esempi, ve ne cito tre.
Ho accennato alla mia mi pregressa attività di ricostruzioni delle memorie delle vittime del terrorismo italiane, finalizzata al loro riconoscimento delle loro dignità e dei loro diritti a verità, giustizia e risarcimenti da parte dello stato. Tale obiettivo è stato raggiunto grazie ad una alleanza tra le due principale associazione che rappresentavano rispettivamente i familiari e i superstiti, l’una del terrorismo rosso, AIVITER a Torino, l’altra di quello nero, l’Unione Stragi a Bologna. Pur avendo letture diverse degli anni di piombo, hanno svolto un comune lavoro di advocacy coi policy maker, per raggiungere gli obiettivi legislativi comuni nel primo decennio di questo secolo.
Questo non toglie però che sul piano della memorializzazione le associazioni abbiano avuto esiti differenti, potendo contare l’una su l’appoggio politicamente incondizionato degli enti locali, mentre l’altra solo un appoggio parziale e tardivo.  A Bologna le costruzioni di memoriali e le iniziative pubbliche periodiche sono iniziate subito negli anni successivi alla strage del 2 agosto 1980; mentre Torino, salvo una piccola eccezione, è iniziata solo decenni dopo. Il dato forse più significativo da evidenziare, a parte la tempistica, è la connotazione delle epigrafi memoriali: solo in quelle delle stragi troviamo l’aggettivazione ‘fascista’ che segue il termine ‘terrorismo’; su quelle del terrorismo rosso, non compare aggettivazione alcuna. In qualche raro caso è precisato “delle Brigate Rosse”, ma la precisa connotazione ideologica, ‘comunista’, è di fatto un tabù.
Il secondo caso è ancora più eclatante e ci porta alla stringente attualità: l’elezione di Javier Milei a presidente dell’Argentina. Ero pochi giorni a seguire un telegiornale quando nel servizio su tale elezione appare colei che sarà la Vicepresidente designata da Milei, una donna che ho conosciuto di persona e con la quale sono stato in corrispondenza una dozzina d’anni fa: Victoria Villarruel, presentata come negazionista del terrorismo di stato ai tempi della giunta militare del generale Videla: i famosi desaparecidos. Non posso confermare, ma posso testimoniare che, prima della sua entrata in politica, Victoria aveva speso la vita nella sua associazioni per raccogliere i dati sulle vittime del terrorismo “rosso” in Argentina, quello di gruppi come i Montoneros che hanno agito non solo come controparte armate del regime di Videla, ma già prima in democrazia, durante il primo peronismo.  Dimostrazione di come la Guerra Fredda fosse in vero assai calda, i cui strascichi di memorie di violenza, con migliaia di vittime da una parte e dall’altra (tra le quali gli italo argentini che interessavano la mia ricerca sulle vittime italiane dei terrorismi internazionali), investa l’attualità politica.

L’ultimo caso riguarda Padova. Dove, confesso di non saperne la storia, un pezzo delle Torri gemelle, è stata posta come monumento per le vittime dell’11 settembre. In tutti i resoconti delle cronache sulle cerimonie, c’è un’anomalia mai evidenziata: nei migliore dei casi i discorsi riportano un numero: 10 gli italiani coinvolti. I nomi sono importanti, come sapete, i numeri deumanizzano. Sono stato fino al Consolato Italiano di New York nel 2011 per sapere i nomi degli italiani vittime dell’11 settembre. 10 anni dopo nessuno si era domandato se tra le macerie delle Twin Towers, ci fossero degli italiani… Meccanismo di rimozione che mi spinse appunto ad analizzare la percezione sociale delle vittime del terrorismo nel mio primo paper del 2017.

Per avviarmi alla prossima storia d’infamia e poter giungere al tema della cancel culture, debbo però tornare ad Angelo Ventura, per sottolineare la filosofia delle storia utilizzata nella sua opera. Ventura studia infatti i rivoluzionari italiani del Sessantotto e dintorni con lo stesso approccio metodologico del mio maestro torinese di studi di storia, Franco Venturi, col quale era andato studiando i rivoluzionari del Sette o dell'Ottocento, i giacobini francesi, i populisti russi: cioè a prescindere da ogni sociologismo o psicologismo, guardando questi ‘rivoluzionari’ attraverso i loro materiali di lavoro e di lotta, le loro idee e le loro azioni concrete. Semplificando all’essenziale, un approccio ‘idealista’ che cerca nei materiali della propaganda le ragioni della ‘propaganda dei fatti’, che sono le azioni armate condotte.
Tra questi materiali di studio ci sono i testi (e più recentemente anche i video) di rivendicazioni degli attentati terroristici, così come i miti e le teorie cospiratorie che supportano il bagaglio ideologico di questi gruppi.
Negli ultimi due anni ho avuto di occasione di provare a ricostruire in un saggio alcuni antecedenti storici di questi materiali. Per limitarmi ai primi, non potendo dilungarmi sui secondi, e così giungere alla conclusione, citerò solo quello molto noto della colonna infame di manzoniana memoria. Una storia che già Sciascia, nell’introduzione dell’edizione de lui curata nel 1981, aveva collegato con i nostri anni di piombo.
Nel percorrere alcuni testi che si possono configurare come teorie cospiratori, da quelle medievali contro ebrei e streghe, alla prima modernità della Milano sotto la peste, per giungere a quelle più recenti su Protocolli di Sion e le teorie novax durante la pandemia, mi sono imbattuto in una interessante reazione alla lettura della Storia delle Colonna Infame.

Sapete che la condanna a morte contro i due untori prevedeva anche la demolizione della casa del barbiere Gian Giacomo Mora e la costruzione di una colonna epigrafia con l'orgogliosa rivendicazione della giustizia compiuta, firmata dagli illustri giudici che avevano emesso la condanna.
Seppure un testo scritto dalla parte dell’autorità pubblica e non di un attore anti-statale, quel testo aveva un connotazione palesante analoga a quelli delle rivendicazioni dei terrorismi contemporanei. Sebbene di un epoca che precede i rivoluzionari francesi e le formazioni ‘para militari’ partigiane o terroriste, quanto accomuna chiaramente l’iscrizione sulla colonna alle rivendicazioni è una precisa finalità  propagandistica. Come i giudici di Milano nel 1630, i terroristi, novelli giustiziati dell’anti-stato, hanno bisogno di rivendicare per suscitare immediatamente simpatia per la giustizia ottenuta attraverso le loro azioni violente contro i nemici, cioè delle vittime colpevoli. Dal punto di vista della vittimologia, le rivendicazioni sono testi che indirizzano una parte dell’opinione pubblica a colpevolizzare la vittima: una forma crudele di vittimizzazione secondaria nota con il nome di victims blaming. Questi testi cercano di mettere in atto un meccanismo di autodifesa del lettore che gli impedisca di provare empatia e compassione nei confronti delle vittime, alimentando qualche “buon diritto” per averle attaccate.

Tornando al saggio manzoniano, meno noto è che fu solo nel 1778, pochi anni prima della nascita dello stesso Manzoni, che il governo cittadino fece abbattere la colonna: una demolizione effettuata di notte e senza pubblicità, in virtù di una legge che vietava il restauro dei monumenti d’infamia.
Questa legge è un importante indizio storico, che segnala la diffusione di tale pratica in epoca medievale e moderna. Una diffusione difficile da riconstruire storicamente, come segnala Marco Albertoni, il maggiore esperto italiani di monumenti d’infamia. Diffusione che vie ribadita da un lettore del saggio manzoniano: Samuel David Luzzatto, professore al Collegio rabbinico di Padova, in una lettera scritta il 24 marzo 1843, citata da Luigi Sardi (2004): “Monumenti d'infamia furono eretti anche contro gli ebrei, e questi monumenti esistono ancora, e né la mano del tempo né quella dell’Illuminismo, né quella della coscienza li hanno demoliti. Anche contro i miei padri furono usate mille volte torture spietate, confessioni forzate, condanne, supplizi…”.

Questa lettera di porta al centro del tema di queste giornate: traducendo nel linguaggio giornalistico attuale: Samuel David Luzzatto è un “woke” che chiede un atto di “cancel culture”…

Ci pone l’interrogativo stringente su come compiere scelte in relazione alle vestigia di fatti violenti, originariamente scritti o costruiti per testimoniare a futura memoria l’orgoglio di aver giustiziato un nemico pubblico infame. Fatti violenti che nei secoli successivi vengono riletti, o meglio interpretati con una sensibilità o da cultura diverse.
Sia il provvedimento del governo milanese (non restaurare o distruggere nascostamente) che la volontà del rabbino Luzzatto, poi esaudita, presentano un paradosso evidente. L'infamia di una colonna o di un monumento emerge quando si vede che dietro l'atto eroico celebrato non ci sono nemici colpevoli, ma vittime innocenti. Quindi, queste demolizioni da un lato riconoscono l’ingiustizia, ma dall’altro la nascondono, cancellano la testimonianza della persecuzione dagli spazi pubblici.
La lettera del rabbino ci segnala come fosse insito nell’illuminismo aspettarsi la distruzione dei monumenti d’infamia. Anche il clima di positivismo storico poteva indurre a ripulite i resti e le testimonianze di atti sulla cui impossibile riproposizione erano poste tutte le certezze di un futuro illuminato dalla ragione. 
Oggi nessuno, non solo ebrei, si sognerebbe di proporre la distruzione dei resti di Auschwitz e Birkenau. Ma il problema è quale funzione questi abbiano.
Funzionano come elementi identitari: quelli di una Europa antitotalitaria, certo. 
Ma il punto è la famosa funzione “to act so that Auschwitz does not happen again”, annunciata  Theodor Adorno negli anni settanta.
Recenti revisione delle attività didattiche interno alla giornata della memoria della Shoah, hanno evidenziato lo scarso impatto. Laura Fontana, per esempio, scrive: “Tutto il fervore attorno alla memoria della Shoah, invocata e ricordata da ogni parte e in ogni circostanza, non è quasi mai ancorata a un’esigenza di conoscenza storica, né a una riflessione politica sul background intellettuale dei carnefici, o a una esame dei sistemi di valore del nostro presente; tale memoria, nel suo essere paradigma del “male assoluto” e della “cattiveria dell'essere umano”, rappresenta invece il pretesto per impartire una lezione morale”.

La finalità della RAN quella di prevenire tutte le forme di radicalizzazione e polarizzazione: fenomeni che hanno spesso a che vedere i diritti storici, con memorie di conflitti storici vicini (Shoah, terrorismo) e lontani (colonialismo, neo-colonialismo). 
Difficile prevenire che il risentimento alimentato da tali diritti e memorie storiche finisca per alimentare, in taluni soggetti o gruppi, forme di radicalizzarsi fino ad esiti violenti.

Nel mio recente paper per la RAN ho cercato di evidenziare un approccio per gestire i conflitti delle memorie. Tale approccio deriva da una recente campo di ricerca interdisciplinare: i “Memory studies”, che comprende trai suoi esponenti Anna Cento Bull, autrice del più importante saggio sull’eredità degli anni di piombo (Ending Terrorism in Italy). Affinchè la memoria dei conflitti non resti un campo di battaglia, strumentalizzabile dalla parti politiche, affinché i monumenti e i musei dedicati ai conflitti non comunichino solo moralismo e retorica nazionale, non si può far altro che considerarla un dibattito “always in progress”, la cui unica difficile precondizione è che in tale dibattito siano coinvolti tutti gli attori coinvolti: inclusi i nemici.
Una opzione politicamente difficile, che però ha degli esempi pratici: Tim Parry Johnathan Ball Peace Foundation, dedicato a due bambini vittime di una attentato dell’IRA a Glasgow,  e nel Centro costruito ad Oslo in memoria delle vittime degli attentati del 2011 di Brevik. Entrembi utilizzano quello che i memory studies definiscono “agonistic mode” of remembering e che prevede appunto la mutua riumanizzazione di tutti gli attori del conflitto. Sì, anche i nemici, che certo sono necessari alla politica, secondo Carl Schmitt, per la civiltà, secondo Umberto Eco, ma da riumanizzare, se vogliamo un processo di pace e chiudere un ciclo storico di violenze. 




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