venerdì 25 dicembre 2015
lunedì 14 dicembre 2015
Islam e radicalizzazione. La cultura dei diritti umani per contrastare gli estremismi violenti
domenica 13 dicembre 2015
Contro gli integralismi. I ruoli di Italia ed Europa
Da "La Voce del Popolo" del 13 dicembre 2015, p. 20
martedì 8 dicembre 2015
Bibbia vs Corano
Leggono versi della Bibbia fingendo che sia il Corano: ecco le reazioni
Versione sottotitolata i italiano qui
domenica 29 novembre 2015
venerdì 27 novembre 2015
L'Italia (che non è la Danimarca) parte con la prevenzione soft del terrorismo?
«Approvare eggi dure è facile,
il difficile è fare qualcosa di incisivo.
Noi abbiamo scelto un’altra via non per
ideologia, ma perché funziona». Parole di
Allan Aarslev, a capo del ramo poliziesco
di un programma d’eccellenza nella
prevenzione dell’estremismo: quello
di Aarhus, la seconda città danese. La
Danimarca era una delle maggiori fonti di
jihadisti diretti in Siria. Molti da Aarhus.
La città però da un paio d’anni ha avviato
un programma ad ampio spettro di
prevenzione e recupero. Pre Ben
Bertelsen, lo psicologo che lo guida, ha
constatato che i suoi giovani concittadini
non si distinguevano dai tanti estremisti
studiati nei decenni passati. L’idea
consolatoria che si tratti di squilibrati o
psicopatici è da tempo sconfessata. Né
la miseria economica o culturale spiega
tutto: molti sono benestanti e istruiti. I
meccanismi psicologici sono complessi,
e includono molti elementi della normale
ricerca di identità dei giovani, come
il bisogno d’appartenenza, di rilevanza
e di conforto esistenziale. Perché a volte
ciò deragli verso il fanatismo violento
non è del tutto chiaro. Spesso però
conta la marginalità sociale. Avvertita
di persona, come nel ricordo d’infanzia
di un attentatore francese: un passante
urtato per sbaglio dalla sorella ha sputato
a terra con disprezzo chiamandola
«sporca araba». «Allora ho capito cosa
sarei diventato», ha raccontato.
La municipalità ha coinvolto scuole,
famiglie, assistenti sociali, associazioni
giovanili, comunità religiose, polizia. Si è
istruito chi era a contatto coi ragazzi sui
segni di radicalizzazione: un improvviso
interesse religioso, la frequentazione
assidua di certi siti, cambi d’aspetto,
amicizie. Pur a fatica, si è collaborato
con una moschea incline al
fondamentalismo, che ha cambiato
atteggiamento. Ai giovani a rischio o
radicalizzati, incluso chi rientra dalla
Siria, si offre un tutor sia per i problemi
pratici sia per dubbi politici e religiosi.
Senza discutere le convinzioni religiose,
ma per evitare ossessioni totalizzanti.
«Puoi batterti per qualsiasi ideale, ma
non con la violenza» è il messaggio.
E pare funzioni: nel 2012 e 2013 lì si
erano arruolata una trentina di jihadisti,
nel 2014 solo uno.
«E' questo IL modello vincente,
un’eccellenza anche fra le realtà del
Nord Europa. Nel Sud siamo in ritardo,
ma l’Italia ha iniziato a muoversi»,
spiega Luca Guglielminetti, membro del
Radicalisation Awareness Network (Ran)
istituito dall’Ue nel 2011 per mettere a
sistema le realtà europee. «Col ministero
della Giustizia abbiamo formato i quadri
e gli operatori di prima linea. A Torino
a maggio abbiamo creato un gruppo
con amministrazioni pubbliche, carceri,
questura, polizia municipale, gruppi che
lavorano con i migranti, scuole, comunità
religiose. E ora cerchiamo di esportare
il modello. Il ministero dell’Interno è
partito a febbraio, per lavorare fra l’altro
su comunicazione e aiuto alle famiglie».
Restano però iniziative un po’
sporadiche. «Manca un coordinamento
tra istituzioni e società civile. I soldi
ci sono, anche dall’Europa. Ora va
costruita in ogni città una rete capace di
interventi su misura. È un lavoro lungo.
Ma per questo dobbiamo partire subito».
domenica 15 novembre 2015
Di fronte la strage di Parigi: The soft (power) is the hardest
Assistiamo invece alla retorica che prova a rassicurare l'opinione pubblica con lo stato d'emergenza, la chiusura delle frontiere e il presidio militare quando proprio il carattere indiscriminato degli obbiettivi colpiti negli attentati terroristici di Parigi dimostrano che non ci sono più obbiettivi sensibili. Il rischio oggi è che la reazione irrazionale e liberticida abbia conseguenze politiche che potrebbero minare la stessa unità europea, invece di rafforzarla come servirebbe più che mai, soprattutto in politica estera.
L'analisi migliore che si può leggere in questi giorni è quella, su Limes o sull'Huffington Post, scritta da Mario Giro, della Comunità di Sant'Egidio e Sottosegretario del Ministero degli Affari Esteri: "Siamo in guerra? La guerra certo esiste, ma principalmente non è la nostra. È quella che i musulmani stanno facendosi tra loro, da molto tempo (…) In questa guerra, noi europei e occidentali non siamo i protagonisti primari; è il nostro narcisismo che ci porta a pensarci sempre al centro di tutto. Sono altri i veri protagonisti.
L’obiettivo degli attentati di Parigi è quello di terrorizzarci per spingerci fuori dal Medio Oriente, che rappresenta la vera posta in gioco."
Di fronte al fenomeno della radicalizzazione violenta dell'islam: "Ci impressionano i temi nichilisti di questi giovani terroristi, la mancanza assoluta del valore della vita - propria e degli altri. Così come ci scandalizza la crudeltà e l'orrore nel dare la morte." Allora in Europa: "Occorre innanzitutto proteggere la nostra convivenza interna e la qualità della nostra democrazia. (…) occorre conservare il nostro clima sociale il più sereno possibile. Mantenere la calma significa non cedere ai richiami dell’odio che bramerebbero vendetta, che per rancore trasformerebbero le nostre città in ghetti contrapposti, seminando cultura del disprezzo e inimicizia. Le immagini del britannico che spinge la ragazza velata sotto la metro di Londra fanno il gioco di Daesh."
La politica di prevenzione sociale e culturale con i suoi strumenti "soft" che intervengono alle radici del fenomeno terrorstico è quanto è mancato in Francia e manca in paesi come il nostro. Entrambi i paesi, infatti, giunti in ritardo solo quest'anno, dopo i fatti di "Charlie Hebdo", ad attivare qualche politica in tal senso, hanno un vizio: sono gestite dalle forze dell’ordine e dalle istituzioni nazionali precipuamente preposte alla lotta al terrorismo tenendo fuori istituzioni locali e società civile.
Gli esempi nord europei e gli approcci suggeriti dal Summit della Casa Bianca sul CVE o dal Global CounterTerrorism Forum (GCTF), trovano difficoltà ad applicarsi, con rare eccezioni, nei paesi latini. Il presupposto corretto di partenza delle politiche di contrasto della radicalizzazione è che "l'intelligence , la forza militare, e l'applicazione della legge da sole non risolverà - e quando abusato possono infatti esacerbare - il problema dell'estremismo violento" . I tre pilastri in questo caso sono:
- Costruzione di sensibilizzazione sui processi di radicalizzazione violenza e di reclutamento;
- Contrastare le narrazioni estremiste, come la promozione on-line di contro narrazioni promosse dalla società civile;
- Valorizzare gli sforzi delle comunità locali che intervengono consentendo di interrompere il processo di radicalizzazione prima che un individuo si impegni in attività criminali.
( si veda Dei diversi approcci di prevenzioni del terrorismo)
La società civile e le amministrazioni locali possono quindi giocare un ruolo attivo - al di là dei momenti di solidarietà, di mobilitazione e di commemorazione - come era già capitato a Torino del corso degli ‘anni di piombo’ quando autorità locali (Regione, Città Quartieri), sindacati, partiti e scuole erano state partecipi dell’opera di isolamento del terrorismo eversivo con la sua propaganda e la pedagogia dei suoi cattivi maestri.
Oggi lo scenario è diverso e gli attori da coinvolgere sono sicuramente anche altri, a partire dalle comunità islamiche, ma gli studi sociali e psicologici ci forniscono nuove analisi e strumenti (sui processi di radicalizzazione e di de-radicalizzazione) che ci permettono di individuare una più ampia platea di soggetti da includere nell’attività di consapevolezza, formazione e prevenzione: famiglie, insegnanti e tutti coloro che sono potenzialmente in contatto con soggetti o gruppi a rischio.
Una stretta collaborazione tra le Autorità nazionali coinvolte su questo terreno (cioè i ministeri di Interni, Difesa, Giustizia, Esteri ed Educazione) con l'Europa (si veda la rete RAN) e con la società civile e le amministrazioni locali è l'unica strada che nei tempi medio lunghi possono assicurare ai nostri paesi di mantenere la loro identità liberale, democratica e pluralista di fronte alla dottrina nichilista del "martirio" che abbiamo visto all'opera a Parigi.
venerdì 30 ottobre 2015
Brochure Aiviter - 1985/2015 Trent'anni dell'Associazione Italiana Vittime del Terrorismo
Presentazione dell'attività trentennale dell'Associazione Italiana Vittime del Terrorismo (Aiviter)
Brochure Aiviter - 1985/2015 Trent'anni dell'Associazione Italiana Vittime del Terrorismo
Presentazione dell'attività trentennale dell'Associazione Italiana Vittime del Terrorismo (Aiviter)
giovedì 8 ottobre 2015
Islam e radicalizzazioni informare per prevenire nelle scuole di Torino
ISLAM: RADICI, FONDAMENTI E RADICALIZZAZIONI VIOLENTE
Le parole e le immagini per dirlo
martedì 1 settembre 2015
martedì 18 agosto 2015
martedì 28 luglio 2015
Torino prima città con una piano di prevenzione della radicalizzazione violenta?
La città di Torino potrebbe attivare presto una rete di prevenzione della radicalizzazione e dell'estremismo violento sul modello europea della RAN.
Articolo su "La Voce del Tempo" Contro il terrore la ‘Rete di sensibilizzazione al problema della radicalizzazione’
martedì 21 luglio 2015
domenica 28 giugno 2015
Dei diversi approcci di prevenzioni del terrorismo
Il primo pilastro è proseguire con le espulsioni degli stranieri "che rappresentano un potenziale pericolo".
Il secondo, che definisce impropriamente "controretorica", è quello da praticare in collaborazione con i colossi di Internet ("da Apple a Google passando per Facebook, Twitter e tutti i gestori delle comunità virtuale") "per arginare il proselitismo via web".
Il terzo è la "convocazione permanente del Comitato di analisi strategica".
Il quarto è ospitare il 29 luglio prossimo a Roma «il secondo incontro dopo quello già organizzato negli Stati Uniti di contrasto all’estremismo violento".
Il primo approccio "consegnare alle autorità degli Stati d’origine persone che hanno mostrato di non rispettare le regole pur non avendo compiuto veri e propri reati" è abbastanza discutibile per due ordini di motivi. Da una parte si scaricano sullo Stato di origine persone sospette senza che sia chiaro cosa quest' ultimo farà di loro (sia sotto il profilo dei diritti, sia sotto il profilo del loro controllo); dall'altra questa strategia, che funziona per gli stranieri di prima generazione, non si può attuare con quelli di seconda, che sono cittadini italiani. Sono questi ultimi, che in questi anni stanno raggiungendo l'età critica, che rappresenteranno presto il maggior rischio di radicalizzazione. Per loro, al momento, ci sono solo gli strumenti repressivi del recente decreto antiterrorismo che si limitano ad inasprire le pene.
Il secondo approccio, in vero è una attività di controllo su quanto avviene sul Web. Lo sviluppo di sistemi automatici che consegna alle forze dell’ordine «”Alert” precoci che si attivano appena vengono postati messaggi che inneggiano all’estremismo». Più che "contro-retorica" è una attività utile all'intelligence per monitorare i soggetti a rischio e l'attività di propaganda.
Il terso approccio, il Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo (C.A.S.A.) è un tavolo permanente tra polizia giudiziaria e servizi di intelligence ed importante strumento, a livello nazionale, di condivisione e valutazione delle informazioni relative alla minaccia terroristica interna ed internazionale.
Questi primi tre pilastri rientrano nella "tradizione" di prevenzione del terrorismo. Un approccio che non è si è ancora esteso in Italia a quella prevenzione più ampia dei processi di radicalizzazione violenta e di contrasto all'estremismo violento, in sigla CVR e CVE, che usano strumenti sociali, educativi, culturali e psicoterapeutici che in molti paesi dell'Europa e del Mondo hanno iniziato ad attivare tutti i governi, come già segnalato in "Softpower nella prevenzione del terrorismo: il divario europeo" del 17 ottobre 2014 e poi sull'Avvenire del 15 gennaio 2015 "Softpower, deradicalizzazione e contronarrative nella prevenzione del terrorismo".
Recentemente anche lo studioso Lorenzo Vidino nel suo saggio per l'ISPI "L'Italia e il terrorismo in casa", ha scritto : "Programmi tesi a de-radicalizzare aspiranti o veri e propri jihadisti (inclusi reduci da scenari di guerra) sono presenti in vari paesi europei da una decina d’anni. L’Unione Europea ne ha incoraggiato la diffusione, spesso finanziando programmi di enti statali e organizzazioni della società civile. L’Italia non ha finora sviluppato una strategia in merito e programmi del genere non sono ancora stati introdotti nel nostro paese. Ma gli operatori dell’antiterrorismo ne segnalano l’utilità e la politica comincia ad ascoltarli.
Il 9 settembre 2014, durante un intervento in Parlamento sulla minaccia del terrorismo islamista, il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha parlato dell’opportunità d’introdurre «strategie di de-radicalizzazione del jihadismo, avvalendosi del supporto e dell’esperienza di insegnanti, assistenti sociali e imam moderati»".
Fino ad oggi però sul questo fronte non era seguito nulla.
Oggi apprendiamo, e vengo al 4 pilastro, leggendo l'intervista al ministro Alfano, l'intenzione di emulare il presidente USA Obama con il summit tenuto alla Casa Bianca lo scorso febbraio sugli strumenti di contrasto all'estremismo violento.
L'approccio usato in quella occasione è molto chiaro: il presupposto di partenza è che "la collaborazione tra intelligence, la forza militare, e quelle di sicurezza da sole non risolvono - e quando abusato possono invece esacerbare - il problema dell'estremismo violento" (si veda https://web.archive.org/web/20150221190438/https://www.state.gov/j/ct/cvesummit/releases/237673.htm).
I tre pilastri del CVE sono:
- Costruzione di sensibilizzazione sui processi di radicalizzazione violenza e di reclutamento;
- Contrastare le narrazioni estremiste, come la promozione on-line di contro narrazioni promosse della società civile;
- Valorizzare gli sforzi delle comunità locali che intervengono consentendo di interrompere il processo di radicalizzazione prima che un individuo si impegni in attività criminali.*
Qualcosa di completamento nuovo per le politiche messe in atto nel nostro paese nella lotta al terrorismo (almeno dal tempo ormai lontano delle legislazione premiale su pentiti e dissociati per chiudere gli Anni di Piombo), ma non una novità assoluta visto che qualche esperienza è stata fatta ed è anche stata valorizzata a livello europeo.
L'Alto Rappesentate europeo Federica Mogherini, a tale Summit della Casa Bianca a febbraio, disse: "Dal 2011, il Radicalisation Awareness Network (RAN) ha lavorato con oltre un migliaio di operatori locali e più di ottocento organizzazioni provenienti da tutta Europa: ad essi è stata data la possibilità di sviluppare raccomandazioni politiche, per raccogliere le best practice, per sostenere quelli che affrontano i problemi della radicalizzazione".
Tra gli operatori coinvolti c'è una qualche decina di italiani e la Collezione di buone pratiche delle rete RAN contiene buone prassi anche "Made in Italy" (compreso il progetto torinese C4C), ma si tratta - come scrivevo quasi due anni fa - "di casi isolati che attendono di essere valorizzati e messi in rete" nel nostro paese.
Chissà che sia la volta buona?
-------
*Ulteriori info in inglese qui https://www.whitehouse.gov/the-press-office/2015/02/18/fact-sheet-white-house-summit-countering-violent-extremism
venerdì 5 giugno 2015
Le vittime del terrorismo nella scuola della Val di Susa
sabato 30 maggio 2015
Memoria Futura: gli “Anni di Piombo” nelle scuole
Servizio sul progetto didattico dell'Aiviter (Associazione Italiana Vittime del Terrorismo) nelle scuole del Piemonte. Terza edizione 2014/2015 di "Memoria futura. Leggere gli ‘Anni di Piombo’ per un domani senza violenza”. La presentazione e premiazione dei lavori degli studenti nell'Aula del Consiglio regionale del Piemonte a Torino, avvenuta il 29 maggio 2014.
Si veda http://www.cr.piemonte.it/web/comunicati-stampa/comunicati-stampa-2015/390-maggio-2015/3708-memoria-futura-studiare-il-terrorismo-a-scuola
domenica 17 maggio 2015
Dalla Repubblica del dolore ad una Repubblica resiliente
Carol Beebe Tarantelli - Memoria e trauma from Luca Guglielminetti on Vimeo.
sabato 9 maggio 2015
Se il racconto dei sopravvissuti al terrorismo è scuola di civiltà
Dall'Avvenire del 9 maggio 2015. Le voci, le testimonianze, le memorie e le narrazioni delle vittime del terrorismo. Il progetto europeo Counter-nattarive for Counter-terrorism - C4C
Seduti in circolo, alcuni ragazzi ascoltano un coetaneo rievocare la tragedia che lo ha ferito nel corpo e nell'anima. Mentre ascoltano, riflettono: e se quell'orrore capitasse a me o a un mio fa-miliare? «La memoria può essere usata, e in alcuni Paesi già lo è con efficacia, per prevenire fenomeni di radicalizzazione e di terrorismo...», spiega lo studioso Luca Guglielminetti, di ritorno da un convegno dell'Onu in Giordania. Torinese, responsabile di un gruppo di lavoro della rete Ue per la sensibilizzazione in materia di radicalizzazione (Ran), collabora da anni con l'associazione Aiviter. Raccontare è una risorsa importante, argomenta, «già dopo l'attentato, perché ha un valore curativo che può aiutare a superare, attraverso la rielaborazione dei fatti, i trauma subito dai sopravvissuti e dai familiari. E lo è in una seconda fase, quando dà pubblica voce ai cittadini colpiti, trasformando una vicenda dimenticata in una storia nazionale condivisa». Nell'ultimo decennio, ragiona Guglielminetti, «c'è stata anche in Italia un'esplosione di narrazioni delle vittime: decine di libri, documentari, siti web e mostre. Una corrente di letteratura, divenuta un tema di ricerca nel mondo accademico, quasi come le vicende occorse ai sopravvissuti dei campi di concentramento nazisti. Questa nuova narrativa - osserva - può svolgere un ruolo rilevante di fronte alla propaganda insidiosa e mortifera dei vari terrorismi, compresa quella del sedicente Stato islamico».
Negli ultimi anni l'Europa ha investito nel finanziare progetti di narrativa: in Spagna, Francia, Olanda, Regno Unito, Austria ci sono iniziative che utilizzano la voce autorevole e forte delle vittime. Anche in Italia si è da poco conclusa la fase pilota del progetto CAC (Contro-narrativa per la lotta al terrorismo), che ha sviluppato una sito web multilingue intitolato The Terrorism survivors storytelling, piattaforma globale per le storie di resilienza e sensibilizzazione al problema della radicalizzazione". Contiene centinaia di testimonianze digitalizzate di vittime da tutto il mondo e una metodologia di utilizzo pratico con giovani e studenti e può essere usato on line per l'attività didattica. Il test in una scuola di Torino, spiega Guglieminetti, «ha dato ottimi risultati. La testimonianza delle vittime ha un grande valore pedagogico per il rafforzamento del pensiero critico dei giovani, della consapevolezza dei rischi insiti nel terrorismo e dei valori democratici del dialogo, della legalità e della cittadinanza attiva». (V.R.S.)
venerdì 8 maggio 2015
La Ran in Commissione comunale legalità di Torino
domenica 3 maggio 2015
lunedì 27 aprile 2015
La società civile di fronte al caso Lo Porto
Si potrebbe dire che è normale che una vittima legata al mondo della comunicazione, grazie all’appoggio del suo entourage, sia fornita di maggiore appoggio, solidarietà e mobilitazione.
lunedì 20 aprile 2015
sabato 11 aprile 2015
C4C Project Videoclip - "The Terrorism Survivors Storytelling"
Si veda anche l'intervista ai coordinatori italiani del progetto: "Contronarrare contro il terrorismo" su Twlettaratura.org
lunedì 6 aprile 2015
Preventing Radicalisation. Role of the European Commission, the RAN and the Projects
Preventing Radicalisation. Role of the European Commission. Radicalisation Awareness Network - RAN and European projects on the topic: included Counter-narration for Counter-terrorism - C4C
domenica 5 aprile 2015
domenica 29 marzo 2015
Dal Bardo a Torino: le opzioni di lotta al terrorismo
Al di là di tali parole, le politiche con le quali il nostro paese contrasta il terrorismo, nelle dimensioni e sfide che ha assunto con l'ISIS, non sono oggetto che conquisti le prime pagine o l'apertura dei telegiornali. E' più facile che ciò accada per i "vecchi" fatti degli Anni di Piombo: dal caso Moro, al caso Battisti o le strage impunite.
Anche i dibattiti pubblici seguono la stessa logica. Così oggi, dall'inizio di quest'anno, sappiamo che, dopo i fatti di "Charlie Hebdo", è stato faticosamente approvato un decreto antiterrorismo che si limita a introdurre nuovi reati o a modificare il Codice penale. La strada maestra italiana della lotta al terrorismo resta quella, indiscussa, dell'indagine giudiziaria e della intelligence, da dotare degli strumenti legislativi adatti ed oggi indirizzati ad apologeti, reclutatori e foreign fighter.
Le prime applicazioni del decreto sono arrivate con la inchiesta "Balkan connection" di pochi giorni fa che ha scoperto una cellula terroristica dell'ISIS in Italia. Su tre arrestati due sono del torinese. Altri due indagati rilasciati a piede libero, sono entrambi di Torino e provincia. Tutti giovanissimi e spesso semplici studenti.
La mia impressione è che l'area metropolitana di Torino si stia avviando a diventare una grande bandlieue del nord ovest, non dissimile da quelle parigine.
L'assenza di dibattito però impedisce che si possa ragionare su altri strumenti di contrasto al terrorismo e alle forme di radicalizzazione violenta che iniziano a penetrare nel nostro paese sotto gli occhi di genitori ed insegnanti stupiti ed ignari.
Mi riferisco all'uso del soft power: quegli strumenti sociali ed educativi che attuano interventi nelle comunità a rischio, nelle prigioni, nelle famiglie, nelle scuole e che puntano ad intervenire sulle radici del fenomeno terroristico, di cui ho parlato qui, su Avvenire e a Rai radio 1.
Intervenire cioè nelle fasi (e nei luoghi) del processo di radicalizzazione precedenti a quelle finali in cui la violenta diventa pratica concreta, è quanto tentano di fare molti paesi europei, e la Commissione Europea consiglia, usando strumenti che preventivamente intervengano sulle persone e nelle comunità, fornendo ad esempio consapevolezza alle famiglie e agli opinion leader locali e religiosi, programmi di deradicalizzazione nelle prigioni o di rafforzamento del pensiero critico nelle scuole.
Qui in Italia si sta invece intervenendo nel processo di radicalizzazione violenta dei giovani estendendo l'applicazione delle leggi anche a chi non ha ancora compiuto fatti di sangue, a chi ha fatto propaganda, a chi è in contatto con foreign fighter, a chi si è prestato a forme di reclutamento on line. Fatti gravi, certamente, ma che usano solo la mano pesante della legge, rinunciando a ogni forma soft preventiva di recupero sociale dei soggetti e delle comunità a rischio.
Soggetti e comunità i cui profili - giovani emigrati di seconda generazione dell'area torinese - stanno emergendo senza che nessuno se ne accorga, se ne preoccupi e se ne faccia politicamente carico.
lunedì 23 marzo 2015
sabato 21 marzo 2015
domenica 15 marzo 2015
Le vittime del terrorismo tra Stato e società civile. Il ruolo delle loro associazioni.
mercoledì 11 marzo 2015
11M2015 L'OMAGGIO EUROPEO ALLE VITTIME DEL TERRORISMO
Bruxelles, 11a Giornata Europea in Ricordo delle Vittime del Terrorismo.
E' stato un onore oggi conoscere la figlia, Hélène, del vignettista di Charlie Hebdo, Philippe Honoré, la sorella della poliziotta, Clarissa Jean-Philippe, uccisa l'8 gennaio e Michel Catalano che ha affrontato i fratelli Kouachi nella sua tipografia nell'epilogo di quei tre giorni terribili.
Qui l'intervento del Commissario della DG Affari interni: Speech by Commissioner Avramopoulos
sabato 21 febbraio 2015
Omaggio al Presidente Aiviter, Dante Notaristefano
martedì 20 gennaio 2015
Radio anch'io del 20/01/2015: La risposta italiana dopo i fatti Parigi
RAI1 - Radio Anch'io - Terrorismo e radicalizzazione mia intervista insieme a Stefano Dambruoso, Luigi Manconi e altri
giovedì 15 gennaio 2015
Europa ed Italia di fronte al radicalismo violento
sabato 10 gennaio 2015
La solidarietà per lobby e quella che serve di fronte al terrorismo
La campagna "Je suis Charlie", l'hashtag record su Twitter, non evidenzia una improvvisa sensibilità verso il problema del terrorismo e delle sue vittime. La rivista satirica "Charlie Hebdo", già in crisi economica, era prodotto editoriale di nicchia noto a una piccola elité francese ed Europea. Quanto ha colpito ed emozionato profondamente è certamente stato assistere alla strage di una intera redazione giornalistica, espressione delle più larga concezione della libertà di opinione e stampa, quella della satira sacrilega. Occorre però aggiungere che l'ampia solidarietà sui social media e nelle manifestazioni di piazza, soprattutto fuori la Francia, è il risultato della mobilitazione di chi si è sentito più esposto e che ha la forza comunicativa per produrla, cioè i giornalisti, cioè i colleghi delle vittime. La categoria professionale in vero più colpita a livello di occidentali dalla furia terrorista islamista degli ultimi mesi.
La strage di Athoca a Madrid del 2004 che uccise 191 persone e provocò 2.057 feriti, non suscitò analoga solidarietà a livello europeo, come pure gli attacchi a Londra del 7 luglio 2005. Non parliamo poi degli attentati che occorrono quotidiani fuori dall'Europa; relegati ai margini delle notizie dall'estero, quasi assenti dai tg, salvo che non sia colpito un occidentale, la qual cosa garantisce i titoli di apertura per un giorno.
In Italia poi, solo per fare un esempio, quasi nessuno ha aderito nei mesi scorsi alla mobilitazione internazionale contro i Boko Haram, quella per cui nomi noti - a partire da Malala - accanto a giovani e studenti si fotografavano con il cartello #brinkbackourgirls in solidarietà alle oltre duecento studentesse ancora oggi in ostaggio dei fondamentalisti. Gli stessi che in questi stessi giorni hanno raso al suolo una città intera, trucidando un numero di persone incerto tra le centinaia e le migliaia. Gli stessi che hanno colpito anche le ultime due vittime italiane: gli ingenieri Lamolinara e Trevisan.
L'ordine degli ingenieri non ha certo appeal comunicativo e quindi i nostro due italiani giacciono nell'oblio.
Benvengano certo e comunque le iniziative di solidarietà, anche se funzionano a corrente alterna, ma occorre cogliere la disfunzione della loro parzialità perché il risultato dovrebbe essere già ben noto sulla scorta della storia nei nostri anni di piombo. Per decenni l'estrema sinistra ha coltivato i suoi morti, così l'estrema destra i suoi. Ci sono voluti 40 e lo sforzo delle associazioni delle vittime ( e del Presidente Napolitano) per iniziare a restituire agli italiani tutte le vittime senza distinzioni.
Queste ore dimostrano come ci sia ancora moltissimo da lavorare per fare comprendere che il terrorismo chiunque colpisce fisicamente in vero colpisce sempre il corpo vivo della società nella sua interezza.
Fare distinzioni tra le vittime dei terrorismi, attribuire valori diversificati, simbolici o meno, è quanto di più dannoso si possa fare per alimentare il circolo vizioso vittimistico dove ognuno conta, onora e ricorda i suoi morti e favorisce così un memoria divisiva, con la possibile gravissima scia vendicativa di terrorismo e violenza politica che ne può derivare.
Il salto culturale da compiere è quindi quello di considerarle tutte alla stessa stregua, chiunque esse siano o siano state, qualunque sia la matrice del terrorismo che le ha colpite. Questo è niente altro. Questo il punto fermo da cui partire per ogni ragionamento successivo che possa fornire alla società civile quella consapevolezza, quelle "armi razionali" dentro i rigorosi confini dello Stato di diritto, per affrontare il terrorismo senza cadere preda di sindrome paranoiche, securitarie e populiste.
Basterebbe pensare non che siamo tutti uguali, ma che che lo diventiamo tutti di fronte alla morte portata in nome di idee.
L'unico hashtag possibile sarebbe Je sui une victime du terrorisme, ogni volta che qualcuno viene colpito, seguito dal nome ancora meglio. Un'utopia impraticabile, come un'utopia la pace in terra, ma un segnale forte di civiltà sì.
venerdì 2 gennaio 2015
"Se la sono cercata" o del victim blaming
"Se la sono cercata…"!
Molti poi giungono l'insulto, altri si preoccupano dei costi per il contribuente dell'eventuale pagamento del riscatto, altri parteggiano apertamente per i terroristi che le tengo sequestrate.
E' un meccanismo vecchio: lo si chiami victim blaming o doppia vittimizzazione. Funzionava già al tempo del rapimento Giacomo Metteotti, nel1924. Ha funzionato ai tempi di Aldo Moro (1978). Indimenticabili i casi di Giorgio Ambrosoli (Andreotti usò l'esatta dizione), ma quante altre volte: i contractors italiani in Irak, i reporter italiani rapiti in giro per il mondo. Negli anni '60 era di moda anche nelle aule di tribunale nei processi per stupro.
In sovrappiù, in Italia il fenomeno si arricchisce di un doppio binario: si usa biasimare la vittima a seconda della parte politica. Se sono di sinistra e il rapito è percepito come di destra, o viceversa, se sono di destra è il rapito viene percepito di sinistra.
Lo sforzo di intendere le vittime tutte uguali perché eguale è l'insensatezza e l'ingiustizia della violenza politica, ideologica, religiosa o di genere su di loro esercitata, è un passaggio culturale che ai più resta difficile compiere, ancora in questo inizio 2015. Non stiamo a ripetere il vetusto "pietà l'è morta", ma prendiamo atto di una diffusa deficienza di riflessione sulla violenza, trasversale a quasi tutte le aree politico culturali.