venerdì 6 marzo 2020

Tra coronavirus e terrorismo, la nostra percezione sociale.


"I virus possono avere conseguenze più potenti di qualsiasi azione terroristica", ha detto il dottor Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell'Organizzazione mondiale della sanità (OMS). Lo ha detto da Ginevra il giorno del mio compleanno, lo scorso 11 febbraio, quando al coronavirus è stato dato anche il nome proprio: COVID-19.

Effettivamente, come occorre di fronte ad un attentato terroristico (1), abbiamo messo in atto un primo meccanismo di 'difesa' sociale: la distanza. Quella che ci ha permesso di stare fermi (paralisi da paura?) a guardare la Cina, prima, la Corea e l'Iran, poi; così come l'Europa è stata a guardare l'Italia, e così come l'Europa orientale sta ora guardano l'Europa occidentale o come il Meridione d'Italia sta guardando il Settentrione. La propagazione virale segue un modello matematico che il terrorismo per fortuna non segue, ma il meccanismo di difesa che tutti mettiamo in atto è lo stesso: sono distante dal pericolo, quindi me ne frego.

Un secondo meccanismo di percezione sociale, analogo al terrorismo, è  quello del capro espiatorio. La vittima è colpevole, in questo caso la sua responsabilità è declinata nella forma dell'untore. E' troppo faticoso addentrarci nelle cause profonde della pandemia. Non ci interessa, è invece assai più semplice individuare uno stigma: il gruppo di appestati da cui stare alla larga. I cinesi prima, ora gli italiani, … e domani, chissà?

C'è un terzo livello di percezione per cui regge il paragone. Sono i media che ci raccontano o meno la storia del singolo contagiato, della vittima del virus, in base al suo status sociale. Finché sono vecchi cinesi o italiani, non abbiamo alcuna empatia: sono numeri senza storie, cioè degli sconosciuti. Ma se sono trovati positivi al virus un giovane, un consigliere comunale, un ministro, un famoso scrittore, allora sì, diventa legittimo raccontare la loro biografia. Così la morte 'mediatica', da virus o attentato, non riesce mai ad essere "'a livella" suggerita da Antonio de Curtis, in arte Totò, ma disegna invece le varie classi d'importanza delle vittime.

Questi modi di percepire non è detto debbano essere insiti nella nostra specie. Certamente, però, anche solo dover re-imparare a lavarsi bene le mani non induce ad ottimismo, ché la serietà è una fatica in vita; dopo, un traguardo garantito: "Nuje simmo serie... appartenimmo à morte!"


(1) Si veda il saggio La percezione sociale delle vittime del terrorismo (2017)

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